Configurabile il reato di stalking anche per le molestie tramite Facebook

La VI Sezione penale della Suprema Corte di Cassazione (sentenza 30/08/2010 n. 32404) ha confermato una custodia cautelare ai domiciliari, disposta dal tribunale di Potenza, nei confronti di un ragazzo accusato di “atti persecutori” (stalking) nei confronti della ex fidanzata. «Continui episodi di molestie, consistiti in telefonate, invii di sms, messaggi di posta elettronica e tramite Facebook, anche nell’ufficio dove lei lavorava» avevano portato il tribunale di Lagonegro nel febbraio 2010 a disporre la custodia cautelare in carcere per l’uomo dopo la denuncia della ragazza. In riforma del provvedimento, poi, il tribunale di Potenza aveva tramutato il carcere in arresti domiciliari. L’uomo, non rassegnato, aveva anche minacciato il nuovo compagno della ex spedendogli fotografie di rapporti sessuali della sua precedente relazione.  Tali comportamenti sono stati ritenuti «minacciosi e molesti» e «gravi indizi di colpevolezza» anche i messaggi su Facebook, che avevano creato nella vittima «uno stato d’animo di profondo disagio e paura in conseguenza delle vessazioni patite».

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Le sentenze inventate o inesistenti ovvero le c.d. allucinazioni giurisprudenziali dell’intelligenza artificiale (AI): il caso ChatGPT al Tribunale di Firenze.

Il difensore della società costituita ha dichiarato che i riferimenti giurisprudenziali citati nell’atto sono stati il frutto della ricerca effettuata da una collaboratrice di studio mediante lo strumento dell’intelligenza artificiale “ChatGPT”, del cui utilizzo il patrocinatore in mandato non era a conoscenza. L’IA avrebbe dunque generato risultati errati che possono essere qualificati con il fenomeno delle cc.dd. allucinazioni di intelligenza artificiale, che si verifica allorché l’IA inventi risultati inesistenti ma che, anche a seguito di una seconda interrogazione, vengono confermati come veritieri. In questo caso, lo strumento di intelligenza artificiale avrebbe inventato dei numeri asseritamente riferibili a sentenze della Corte di Cassazione inerenti all’aspetto soggettivo dell’acquisto di merce contraffatta il cui contenuto, invece, non ha nulla a che vedere con tale argomento.

I ‘like’ ad un post discriminatorio su Facebook possono costituire prove sufficienti per considerare il reato di istigazione all’odio razziale.

Integra il reato di cui all’art. 604-bis, comma secondo, cod. pen., l’adesione a una comunità virtuale caratterizzata da vocazione ideologica neonazista, avente tra gli scopi la propaganda e l’incitamento alla discriminazione e alla violenza per motivi razziali, etnici o religiosi e la condivisione, sulle bacheche delle sue piattaforme “social”, di messaggi di chiaro contenuto negazionista, antisemita e discriminatorio per ragioni di razza, attraverso l’inserimento di “like” e il rilancio di “post” e dei correlati commenti, per l’elevato pericolo di diffusione di tali contenuti ideologici tra un numero indeterminato di persone derivante dall’algoritmo di funzione dei “social network”, che aumenta il numero di interazioni tra gli utenti.

L’invio di messaggi su Messenger non è diffamazione senza dolo

In tema di delitti contro l’onore, l’elemento psicologico della diffamazione consiste non solo nella consapevolezza di pronunziare o di scrivere una frase lesiva dell’altrui reputazione ma anche nella volontà che la frase denigratoria venga a conoscenza di più persone. Pertanto è necessario che l’autore della diffamazione comunichi con almeno due persone ovvero con una sola persona, ma con tali modalità che detta notizia sicuramente venga a conoscenza di altri ed egli si rappresenti e voglia tale evento.

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26/04/2025La recente sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 23 gennaio 2025 segna un punto di svolta fondamentale nella giurisprudenza in materia di diritto di famiglia. La Corte ha stabilito che considerare il rifiuto di rapporti sessuali come motivo di addebito della separazione o del divorzio viola l’articolo 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, che tutela il diritto al rispetto della vita privata. Il caso H.W. c. Francia: i fatti Il caso riguarda una donna francese che, dopo aver chiesto il divorzio dal marito nel 2012, si è vista addebitare la colpa esclusiva della fine del matrimonio dalla Corte d’Appello di Versailles. La motivazione? Aver “rifiutato continuamente, a partire dal 2004, di intrattenere relazioni intime con il marito”, nonostante la donna avesse giustificato tale rifiuto con problemi di salute. La Corte d’Appello aveva ritenuto che tale comportamento costituisse “una violazione grave e ripetuta dei doveri e degli obblighi del matrimonio che rende intollerabile il mantenimento della vita comune”. La Corte di Cassazione francese aveva poi respinto il ricorso della donna. La decisione della Corte EDU La Corte Europea ha ritenuto che la riaffermazione del “dovere coniugale” e la pronuncia del divorzio per colpa esclusiva della ricorrente costituiscano un’interferenza ingiustificata con il suo diritto al rispetto della vita privata, la sua libertà sessuale e il suo diritto di disporre del proprio corpo. Secondo la Corte, l’esistenza stessa di un “obbligo matrimoniale” che impone rapporti sessuali è contraria: alla libertà sessuale al diritto di disporre del proprio corpo al dovere positivo degli Stati di prevenire la violenza domestica e sessuale La Corte ha sottolineato che “il consenso deve riflettere la libera volontà di avere un determinato rapporto sessuale, nel momento in cui si verifica e tenendo conto delle sue circostanze”, e che il consenso al matrimonio non implica il consenso a futuri rapporti sessuali. Rilevanza per il diritto italiano Questa sentenza ha importanti implicazioni anche per il diritto italiano. Sebbene il nostro ordinamento non preveda esplicitamente un “dovere coniugale” nei termini della giurisprudenza francese, la questione del rifiuto dei rapporti sessuali come possibile causa di addebito della separazione è stata oggetto di diverse pronunce giurisprudenziali. Nel nostro sistema, l’art. 143 del Codice Civile stabilisce che “dal matrimonio deriva l’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia e alla coabitazione”. La giurisprudenza italiana ha talvolta interpretato questi obblighi includendo anche aspetti relativi alla sfera intima dei coniugi. Alla luce della sentenza della Corte EDU, è ora chiaro che tale interpretazione deve essere rivista: il rifiuto di rapporti sessuali, in quanto espressione della libertà sessuale e del diritto di disporre del proprio corpo, non può costituire di per sé una violazione dei doveri matrimoniali tale da giustificare l’addebito della separazione. Conseguenze pratiche per le separazioni e i divorzi Per chi affronta una separazione o un divorzio, questa sentenza rappresenta un importante precedente. Non sarà più possibile fondare una richiesta di addebito sul solo rifiuto di rapporti sessuali da parte del coniuge. Nei procedimenti di separazione e divorzio sarà necessario: Valutare con attenzione le reali cause della crisi coniugale Considerare che la libertà sessuale è un diritto fondamentale che non viene meno con il matrimonio Ricordare che il consenso ai rapporti intimi deve essere libero e attuale Consulenza legale specializzata Come avvocato specializzato in diritto di famiglia ad Ancona, offro consulenza e assistenza legale in tutti i procedimenti di separazione e divorzio, garantendo un approccio aggiornato alle più recenti evoluzioni giurisprudenziali nazionali ed europee. La tutela dei diritti fondamentali, inclusa la libertà sessuale, è un aspetto centrale della mia pratica professionale. Se state affrontando una separazione o un divorzio e avete bisogno di assistenza legale, sono a vostra disposizione per una consulenza personalizzata che tenga conto di tutti gli aspetti della vostra situazione. Per appuntamenti e informazioni, potete contattare il mio studio legale ad Ancona. Questo articolo ha scopo informativo e non costituisce consulenza legale. Per un parere professionale sul vostro caso specifico, vi invito a contattare il mio studio. […] Read more…
07/04/2025TRIBUNALE ORDINARIO DI FIRENZE SEZIONE IMPRESE Il Tribunale delle Imprese, in composizione collegiale, nelle persone dei magistrati: dott. Alessandro Ghelardini Presidentedott.ssa Laura Maione Giudicedott.ssa Stefania Grasselli Giudice relatore nel procedimento per reclamo iscritto al n. 11053/2024 R.G. promosso da (…) RECLAMANTE contro (…) ALTRI RECLAMATI avente ad oggetto: Sequestro (art. 129 c.p.i.) ha emesso la seguente ORDINANZA (…). Si ritiene infine che debba essere rigettata la richiesta di condanna di C° ex art. 96 c.p.c. avanzata da (…) a seguito dell’indicazione, in sede di comparsa di costituzione, di sentenze inesistenti, ovvero il cui contenuto reale non corrisponde a quello riportato. A seguito delle note all’uopo autorizzate (occorre peraltro specificare come non possano essere considerate le parti inerenti al merito della vertenza inserite nella nota di replica depositata dal reclamante, essendo le note state espressamente autorizzate “sulla sola questione inerente i precedenti giurisprudenziali oggi contestati”, altrimenti ledendo il principio del contraddittorio), il difensore della società costituita ha dichiarato che i riferimenti giurisprudenziali citati nell’atto sono stati il frutto della ricerca effettuata da una collaboratrice di studio mediante lo strumento dell’intelligenza artificiale “ChatGPT“, del cui utilizzo il patrocinatore in mandato non era a conoscenza. L’IA avrebbe dunque generato risultati errati che possono essere qualificati con il fenomeno delle cc.dd. allucinazioni di intelligenza artificiale, che si verifica allorché l’IA inventi risultati inesistenti ma che, anche a seguito di una seconda interrogazione, vengono confermati come veritieri. In questo caso, lo strumento di intelligenza artificiale avrebbe inventato dei numeri asseritamente riferibili a sentenze della Corte di Cassazione inerenti all’aspetto soggettivo dell’acquisto di merce contraffatta il cui contenuto, invece, non ha nulla a che vedere con tale argomento. La reclamata, pur riconoscendo l’omesso controllo sui dati così ottenuti, ha chiesto lo stralcio di tali riferimenti, ritenendo già sufficientemente fondata la propria linea difensiva. Sul punto, il reclamante ha rilevato l‘errore di verifica della veridicità delle ricerche effettuate e, sottolineando l’abusivo utilizzo dello strumento processuale, ha chiesto la condanna di controparte ex art. 96 c.p.c. per aver in questo modo influenzato la decisione del collegio. Occorre rilevare come l’indicazione di tali riferimenti giurisprudenziali sia stata posta a fondamento della tesi ab origine sostenuta dalla (…), proposta quindi a supporto di una struttura difensiva rimasta immutata sin dal primo grado del giudizio ed oggettivamente non finalizzata ad influenzare il collegio, appuntandosi piuttosto su quanto già indicato, in senso analogo, anche nelle decisioni di prime cure, in ordine all’assenza dell’elemento soggettivo della malafede dei dettaglianti, elemento sulla base del quale non sono state a loro estese le misure cautelari. In particolare, quanto all’applicazione del comma 1 del cit. art. 96 c.p.c., in linea generale si ritiene che abbia natura extracontrattuale, poiché “richiede pur sempre la prova, incombente sulla parte istante, sia dell’an e sia del quantum debeatur, o comunque postula che, pur essendo la liquidazione effettuabile di ufficio, tali elementi siano in concreto desumibili dagli atti di causa” (cfr. Cass., sez. L, sentenza n. 9080 del 15 aprile 2013) e, “pur recando in sé una necessaria indeterminatezza quanto agli effetti lesivi immediatamente discendenti dall’improvvida iniziativa giudiziale, impone, comunque, una, sia pur generica, allegazione della direzione dei supposti danni” (cfr. Cass., sez. II, sentenza n. 7620 del 26 marzo 2013). In applicazione di tali principi nel caso di specie, la domanda non può essere accolta, in quanto il reclamante non ha spiegato alcuna allegazione, neppur generica, dei danni subiti a causa dell’attività difensiva espletata della controparte. Questo tribunale ritiene del pari non applicabile il comma 3 dell’art. 96 c.p.c., la cui ratio deve individuarsi nel disincentivare l’abuso del processo o comportamenti strumentali alla funzionalità del servizio giustizia ed in genere al rispetto della legalità sostanziale; tale fattispecie deve inoltre intendersi come species dei primi due commi, per cui non si può prescindere dalla condotta posta in essere con mala fede o colpa grave né dall’abusività della condotta processuale. Ora, fermo restando il disvalore relativo all’omessa verifica dell’effettiva esistenza delle sentenze risultanti dall’interrogazione dell’IA (…), sin dal primo grado ha fondato la sua propria strategia difensiva sull’assenza di malafede nell’aver commercializzato le magliette raffigurante le vignette di (…) elemento che poi si era già trovato nel decreto emesso inaudita altera parte e che ha trovato riscontro anche nella successiva ordinanza cautelare. L’indicazione di estremi di legittimità nel giudizio di reclamo ad ulteriore conferma della linea difensiva già esposta dalla (…) si può quindi considerare diretta a rafforzare un apparato difensivo già noto e non invece finalizzata a resistere in giudizio in malafede, conseguendone la non applicabilità delle disposizioni di cui all’art. 96 c.p.c.. 4. Le spese di lite Le spese di lite seguono il principio della soccombenza, per cui tutti i reclamati, anche contumaci, devono essere condannati in solido a rifondere al reclamante le spese da questi sostenute, con conseguente revoca della disposizione inerente al pagamento delle spese da parte di (…) in favore di (…). Quindi, le spese di lite vengono liquidate per come indicato in dispositivo, tenuto conto del valore della controversia (indeterminabile – complessità media) e dell’attività difensiva espletata (scaglione medio per le fasi di studio ed introduttiva e minimo per quelle istruttoria, essendo stata solo documentale, e decisionale, essendosi celebrata una sola udienza) sulla base dei parametri di cui al D.M. Giustizia 10 aprile 2014 n. 55, aggiornati al D.M. n. 147 del 13/08/2022. (…) […] Read more…
30/12/20241. Con ordinanza deliberata il 25 giugno 2021 il Tribunale di Roma, adito ai sensi dell’art. 309 cod. proc. pen., ha confermato l’ordinanza con cui il GIP aveva applicato a ### ### la misura cautelare dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria in ordine al reato di cui all’art. 604-bis, secondo comma, cod. pen. (capo 1) e di quello previsto dagli artt. 604-bis e 604-ter cod. pen. (capo 2), escludendo l’aggravante di cui all’art. 604-ter cod. pen. Secondo i giudici della cautela, le emergenze investigative costituiscono una piattaforma indiziaria sufficiente, per la sua gravità, per ritenere sussistenti entrambi i reati e di ascriverli al ###. Il monitoraggio delle interazioni di tre distinte piattaforme social, non aventi natura privata, operanti su Facebook, VKontacte e Whatsapp, eseguito fino alle perquisizioni del 2019, aveva disvelato non solo .1a creazione di una comunità virtuale internet, denominata “### ### ###” (#.#.#.), caratterizzata da una vocazione ideologica di estrema destra neonazista, avente tra gli scopi la propaganda e l’incitamento alla discriminazione per motivi razziali, etnici e religiosi, ma anche la commissione di plurimi delitti di propaganda di idee on line fondate sull’antisemitismo, il negazionismo, l’affermazione della superiorità della razza bianca nonché incitamenti alla violenza per le medesime ragioni. Dalla medesima attività investigativa nonché da alcune conversazioni telefoniche era emerso che il ### aveva aderito al gruppo ###, anche incontrando di persona alcuni dei principali esponenti (### ###), e si era posto ripetutamente in contatto con le piattaforme social della comunità virtuale, attraverso l’uso di account a lui riconducibili, consentendo, con l’inserimento dei “like“, il rilancio di “post” e dei correlati commenti dal contenuto negazionista ed antisemita. 2. Avverso l’ordinanza ha proposto ricorso il ###, per il tramite del difensore di fiducia, avv. ### ###, sviluppando due motivi di seguito enunciati nei limiti previsti dall’art. 173 disp. att. cod. proc. pen. 2.1. Con il primo motivo deduce violazione di legge in relazione all’art. 604- bis cod. pen. e vizio di motivazione in merito alla ricorrenza della fattispecie delittuosa. Il provvedimento non ha fornito una incisiva replica alle valutazioni difensive sul carattere lacunoso e scarno del compendio indiziario a carico del ###. Ha, infatti, continuato a valorizzare in chiave accusatoria i contatti fisici fra i presunti aderenti all’organizzazione, nonostante siano del tutto irrilevanti alla luce della tipologia dei reati contestati, che sanzionano esclusivamente la propaganda di idee on line e la diffusione di messaggi, nonché l’inserimento di soli “tre like” che costituiscono, al più, un’espressione di gradimento e non sono affatto dimostrativi né dell’appartenenza al gruppo né della condivisione degli scopi illeciti. Il contenuto dei post nei quali il ### ha inserito il “mi piace” non sfocia mai nell’antisemitismo e non travalica i confini della libera manifestazione del pensiero. Nessun messaggio è idoneo ad influenzare il comportamento o la psicologia di un pubblico vasto e a raccogliere adesioni nei termini richiesti dalla giurisprudenza di legittimità, ampiamente richiamata, che ritiene necessario per l’integrazione del reato il pericolo concreto di comportamenti discriminatori. 2.2. Con il secondo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al ritenuto pericolo di recidiva ed in ### all’adeguatezza della misura cautelare applicata. Il Tribunale ha ritenuto irrilevante lo stato di incensuratezza e non genuina la resipiscenza senza fornire adeguata giustificazione; non ha nemmeno indicato dati concreti ed oggettivi che rendano attuale ed effettiva l’esigenza cautelare di cui all’art. 274 lett. c) cod. proc. pen., finendo per assegnare all’applicata misura natura punitiva e non social preventiva. Non sussiste alcuna correlazione, anche solo logica, fra l’obbligo di firma imposto al ricorrente e l’obbiettivo di evitare che lo stesso commetta ulteriori reati. La peculiarità della posizione del ###, il quale, oltre ad essere incensurato, ha contribuito in maniera assai limitata alla consumazione dei reati, giustificava una diversa valutazione in sede cautelare rispetto agli altri indagati, attinti da precedenti specifici e da un compendio indiziario ben più consistente. CONSIDERATO IN DIRITTO Entrambi i motivi non superano il preliminare vaglio di ammissibilità. 1. Il primo motivo, relativo alla gravità indiziaria, non si confronta criticamente con il reale apparato argomentativo del provvedimento impugnato che, pertanto, risulta essere attinto da censure generiche o comunque tali da sollecitare apprezzamenti di merito, estranei al giudizio di legittimità. Il Tribunale del riesame ha logicamente desunto l’appartenenza del ### alla comunità virtuale, avente gli scopi previsti dalla norma incriminatrice, non solo dai rapporti di frequentazione, fisici e ripetuti, con altri utenti, ma anche dalle sue plurime manifestazioni di adesione e condivisione dei messaggi confluiti sulle bacheche presenti nelle piattaforme Facebook, VKontacte e Whatsapp dal chiaro contenuto negazionista, antisemita e discriminatorio per ragioni di razza (si pensi all’identificazione degli ebrei come ‘il vero nemico’ o al riferimento alla Shoà come ‘la menzogna più madornale che possano aver inculcato” o all’irrisione delle vittime dei campi di sterminio) e, ai fini tanto dell’integrazione delle condotte di propaganda quanto della individuazione nell’incitamento all’odio quale scopo illecito perseguito del gruppo, ha considerato concreto il pericolo di diffusione dei messaggi tra un numero indeterminato di persone, opportunamente valorizzando la pluralità di social network utilizzati e le modalità di funzionamento di uno di questi, Facebook, incentrate su un algoritmo che attribuisce rilievo anche alle forme di gradimento, i “like“, espressi dall’odierno ricorrente. A quest’ultimo proposito, i giudici della cautela hanno precisato che la diffusione dei messaggi inseriti nelle bacheche “Facebook“, già potenzialmente idonei a raggiungere un numero indeterminato di persone, dipende dalla maggiore interazione con le pagine interessate da parte degli utenti. La funzionalità “newsfeed” ossia il continuo aggiornamento delle notizie e delle attività sviluppate dai contatti di ogni singolo utente è, infatti, condizionata dal maggior numero di interazioni che riceve ogni singolo messaggio. Sono le interazioni che consentono la visibilità del messaggio ad un numero maggiore di utenti i quali, a loro volta, hanno la possibilità di rilanciarne il contenuto. L’algoritmo scelto dal social network per regolare tale sistema assegna, infatti, un valore maggiore ai post che ricevono più commenti o che sono contrassegnati dal “mi piace” o “like“. . Completano, infine, la piattaforma accusatoria le conversazioni telefoniche che delineano la figura del ### quale appartenente alla comunità virtuale. In tale qualità, infatti, egli non solo ha ricevuto consigli per evitare l’acquisizione di prove compromettenti a suo carico (conversazione con ### ### il quale, già destinatario di attività di perquisizione e sequestri, lo esortava ad adottare specifiche misure cautelative per evitare di essere scoperto cancellando chat, rubriche ed altri interventi sul telefonino), ma è stato anche destinatario di specifici commenti da parte di un altro esponente, il ###, il quale aveva manifestato il suo personale compiacimento per la convinta adesione al gruppo da parte del ###. 2. Il secondo motivo, relativo alle esigenze cautelari, è parimenti generico e, comunque, manifestamente infondato. Il pericolo di reiterazione delle condotte delittuose è stato desunto da elementi concreti ed attuali, specificamente indicati, ossia dall’epoca assai recente di consumazione dei reati e della personalità del ###, il quale, ad onta della pregressa incensuratezza e nonostante la professione svolta, non aveva manifestato, nelle conversazioni intercettate, alcuna forma di ripensamento critico neanche dopo essere venuto a conoscenza delle perquisizioni eseguite nei confronti degli altri indagati nel 2019. Anzi, aveva continuato, seppure con maggiore prudenza, a gravitare nel contesto relazionale ed ideologico del movimento. L’adeguatezza della misura dell’obbligo di firma a fronteggiare la delineata esigenza di cautela è stata plausibilmente ancorata alla spinta deterrente esercitata dai periodici contatti con l’autorità di polizia giudiziaria.3. Per quanto esposto, il ricorso manifestamente infondato in tutte le sue deduzioni, va dichiarato inammissibile con la conseguente condanna del proponente al pagamento delle spese processuali e, in relazione ai profili di colpa nella proposizione di tale impugnazione, anche al versamento di sanzione pecuniaria in favore della Cassa delle ammende, che si reputa equo liquidare in euro 3.000,00. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Così deciso, in Roma il 6 dicembre 2021”. Così Suprema Corte di Cassazione, Sez. 1 – , Sentenza n. 4534 del 06/12/2021 Cc.  (dep. 09/02/2022 ) Rv. 282504 – 01 Presidente: ZAZA CARLO.  Estensore: ALIFFI FRANCESCO.  Relatore: ALIFFI FRANCESCO.  Imputato: ### ###. P.M. GAETA PIETRO. (Conf.) Dichiara inammissibile, TRIB. LIBERTA’ ROMA, 25/06/2021. […] Read more…
23/12/20241. Con sentenza del 22 novembre 2023 la Corte di appello di L’Aquila – per quel che qui rileva – all’esito del gravame interposto da ### ###, ne ha confermato la condanna, resa dal Tribunale di L’Aquila con pronuncia del 5 luglio 2019, per il delitto aggravato di diffamazione (art. 595, commi 1 e 3, cod. pen.) – commesso in pregiudizio di ### ### – anche con riguardo alle statuizioni civili in favore di quest’ultimo. In particolare, all’imputata è contestato di aver divulgato tramite il social network Facebook una lettera dal contenuto offensivo dell’onore, del decoro e della professionalità del ### (che esercita la professione forense), redatta da ### ###. 2. Avverso la sentenza di appello il difensore dell’imputata ha proposto ricorso per cassazione, articolando un unico motivo (di seguito esposto nei limiti di cui all’art. 173, comma 1, d. att. cod. proc. pen.), con il quale ha denunciato la mancanza di motivazione, in particolare in ordine alla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, profilo rispetto al quale l’argomentazione con cui è stata disattesa la prospettazione difensiva sarebbe apparente. Difatti, con il gravame si era dedotto che: – l’istruttoria dibattimentale avrebbe acclarato che l’imputata non ha pubblicato la missiva tramite un canale pubblico (come contestato) ma l’ha trasmessa tramite l’applicativo di messaggistica privata Messenger nel corso di un contatto intercorso con l’Avv. ### (Presidente dell’associazione intitolata alla figlia di quest’ultima), senza avere conoscenza del fatto (emerso nel corso dell’istruttoria, ma a lei ignoto anche alla luce del tenore privato del contatto con la propria interlocutrice) che a tale applicativo avessero accesso anche altri soggetti (i membri del direttivo della detta associazione); – la Corte di merito, a fronte di tale specifica deduzione volta a confutare la sussistenza dell’elemento soggettivo (anche alla luce del fatto che la ### non ha, come esposto, divulgato la missiva in un canale pubblico), avrebbe eluso la questione, rendendo una motivazione apparente fondata su quanto emerso nell’istruttoria dibattimentale a proposito dei soggetti che avevano accesso al detto applicativo ma non su quanto era in effetti noto all’imputata quando ha agito. 3. Il Sostituto Procuratore generale presso questa Corte di cassazione ha presentato memoria con la quale, in ragione della fondatezza del ricorso, ha chiesto l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, perché il fatto non costituisce reato, con revoca delle statuizioni civili. CONSIDERATO IN DIRITTO Il ricorso è fondato, nei termini di seguito esposti. 1. L’art. 595 cod. pen. incrimina chiunque, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione (nei casi in cui la comunicazione non sia diretta all’offeso che vi resta estraneo; cfr. Sez. 5, n. 10905 del 25/02/2020, Sala, Rv. 278742 — 01; Sez. 5, n. 10313 del 17/01/2019, Vicaretti, Rv. 276502 — 01). Questa Corte ha già rilevato che: – «il bene giuridico tutelato dall’art. 595 cod. pen. è l’onore nel suo riflesso in termini di valutazione sociale (la reputazione intesa quale patrimonio di stima, di fiducia, di credito accumulato dal singolo nella società e, in particolare, nell’ambiente in cui quotidianamente vive e opera) di ciascuna persona, e l’evento è costituito dalla comunicazione e dalla correlata percezione o percepibilità, da parte di almeno due consociati, di un segno (parola, disegno) lesivo, che sia diretto, non in astratto, ma concretamente, a incidere sulla reputazione di uno specifico cittadino . Si tratta di evento, non fisico, ma, psicologico, consistente nella percezione sensoriale e intellettiva, da parte di terzi, dell’espressione offensiva» (Sez. 5, n. 39059 del 27/06/2019, ###, Rv. 276961 — 01, che richiama, tra le altre, Sez. 5, n. 47175 del 04/07/2013, ###, Rv. 257704; cfr. pure Sez. 5, n. 8890 del 30/11/2020 – dep. 2021, ###, Rv. 280622 – 01); – «ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo del delitto di diffamazione, non si richiede che sussista animus iniuriandi vel diffamandi”, essendo sufficiente il dolo generico, che può anche assumere la forma del dolo eventuale, in quanto è sufficiente che l’agente, consapevolmente, faccia uso di parole ed espressioni socialmente interpretabili come offensive, ossia adoperate in base al significato che esse vengono oggettivamente ad assumere, senza un diretto riferimento alle intenzioni dell’agente» (Sez. 5, n. 4364 del 12/12/2012 – dep. 2013, ###, Rv. 254390 – 01; cfr. pure Sez. 5, n. 8419 del 16/10/2013 – dep. 2014, ###, Rv. 258943 – 01); – «l’elemento psicologico della diffamazione consiste non solo nella consapevolezza di pronunziare o di scrivere una frase lesiva dell’altrui reputazione ma anche nella volontà che la frase denigratoria venga a conoscenza di più persone. Pertanto è necessario che l’autore della diffamazione comunichi con almeno due persone ovvero con una sola persona, ma con tali modalità che detta notizia sicuramente venga a conoscenza di altri ed egli si rappresenti e voglia tale evento» (Sez. 5, n. 36602 del 15/07/2010, ###, Rv. 248431 – 01; Sez. 5, n. 2138 del 14/12/1972 – dep. 1973, ###, Rv. 123561 – 01; cfr. pure Sez. 5, n. 1794 del 05/11/1998 – dep. 1999, ###, Rv. 212516 – 01, secondo cui, «nel caso in cui la “comunicazione con più persone” non possa dirsi voluta dall’agente, nemmeno sotto il profilo del dolo eventuale» ed essa «cionostante, si verifica, non ha riflesso penale, non essendo prevista nel nostro ordinamento l’ipotesi colposa della diffamazione»; cfr. pure Sez. 5, n. 26560 del 29/04/2014, ###, Rv. 260229 – 01, che, quanto «al requisito della comunicazione con più persone», al fine della sussistenza del delitto, ha espressamente attribuito rilievo al fatto che l’autore «prevedesse o volesse la circostanza che il contenuto» diffamatorio della propria missiva «sarebbe stato reso noto a terzi»). Inoltre, le Sezioni Unite hanno chiarito che, «in tema di elemento soggettivo del reato, il dolo eventuale ricorre quando l’agente si sia chiaramente rappresentata la significativa possibilità di verificazione dell’evento concreto e ciò nonostante, dopo aver considerato il fine perseguito e l’eventuale prezzo da pagare, si sia determinato ad agire comunque, anche a costo di causare l’evento lesivo, aderendo ad esso, per il caso in cui si verifichi» (Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, Rv. 261104 – 01). 1.2. Tanto premesso, la motivazione della sentenza impugnata è viziata proprio sotto il profilo della sussistenza dell’elemento soggettivo del delitto, unico oggetto di censura da parte del ricorso (che non ha, invece, ad oggetto la sussistenza del fatto nella sua materialità, neppure sotto il profilo della divulgazione a più persone delle espressioni denigratorie tramite l’applicazione Messenger). Difatti, con l’atto di appello la difesa dell’imputata aveva censurato sul punto la sentenza di primo grado (che aveva ritenuto ovvio che ella avesse conoscenza del fatto che la divulgazione a terzi della missiva de qua «potesse e dovesse accadere – poiché ella stava «usando un mezzo diretto a cui avevano continuo accesso altre soggetti appartenenti all’associazione ### ### Onlus»): in particolare, con il gravame si era dedotto che la ### non avesse alcuna consapevolezza che le espressioni offensive da lei trasmesse – secondo la ricostruzione compiuta dai Giudici di merito, tramite Messenger – sarebbero entrate a conoscenza di soggetti diversi dall’unica persona (l’avvocato ###) con la quale aveva intrattenuto il proprio contatto telematico non solo in precedenza ma anche lo stesso giorno del fatto (per più ore) proprio con tale modalità (richiamando, in particolare, non solo quanto rassegnato dall’imputata nel corso del proprio esame ma anche la testimonianza dell’avvocato ###; cfr. atto di appello, spec. p. 3 s.). Tuttavia, la Corte di appello in maniera del tutto assertiva ha affermato che l’imputata, per il solo fatto di aver comunicato («sia pure tramite messenger») «con un profilo Facebook riconducibile ad un’associazione, non pote non avere la consapevolezza che agli scritti avessero accesso quantomeno in componenti del direttivo dell’associazione», dovendosi pertanto ritenere la sussistenza, in capo a lei, «quanto meno della previsione e dell’accettazione dell’evento» e, dunque, del dolo eventuale (cfr. sentenza impugnata, p. 8), senza argomentare in ordine alle allegazioni difensive e senza indicare gli elementi (incompatibili con esse e, dunque, atto a disattenderle) sulla scorta dei quali inferire che ella avesse contezza che i membri del direttivo avessero accesso alla conversazione in discorso, contezza tratta in maniera apodittica dalla riferibilità del profilo telematico in discorso alla medesima associazione. Ne deriva l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata agli effetti penali, perché il reato è estinto per prescrizione: il fatto è, infatti, stato commesso il giorno 12 novembre 2015 e il termine massimo di prescrizione, pari a sette anni e sei mesi (artt. 157 e 161 cod. pen.) è spirato il 27 dicembre 2023, pur considerando il tempo in cui è rimasto sospeso (229 giorni in ragione del differimento, per legittimo impedimento del difensore, dell’udienza del 13 giugno 2018 al 19 ottobre 2018; di quest’ultima udienza a quella del 25 gennaio 2019; di questa al 12 aprile 2019, rinvii tutti da computarsi nei limiti di 60 giorni; nonché per il differimento, sempre per legittimo impedimento del difensore, dell’udienza del 12 aprile 2019 al 31 maggio 2019). Deve, dunque, disporsi l’annullamento della sentenza impugnata agli effetti civili (art. 622 cod. proc. pen.), con rinvio per nuovo giudizio al Giudice civile competente per valore in grado di appello, cui si rimette anche la liquidazione delle spese tra le parti del presente giudizio. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata agli effetti penali, perché il reato è estinto per prescrizione. Annulla altresì la sentenza impugnata agli effetti civili con rinvio per nuovo giudizio al Giudice civile competente per valore in grado di appello, cui rimette anche la liquidazione delle spese tra le parti del presente giudizio. Così deciso il 02/07/2024. Il Consigliere estensore Il Presidente Giovanni Francolini Enrico Vittorio Stanislao Scarlini”. Così Suprema Corte di Cassazione, Sez. 5 – , Sentenzan.36217del 02/07/2024 Ud.  (dep. 27/09/2024 ) Rv. 286934 – 01 Presidente: SCARLINI ENRICO VITTORIO STANISLAO.Estensore: FRANCOLINI GIOVANNI.Relatore: FRANCOLINI GIOVANNI.Imputato: ###.P.M. PASSAFIUME SABRINA.(Conf.) Annulla senza rinvio, CORTE APPELLO L’AQUILA, 22/11/2023. […] Read more…
18/12/2024“1. Con l’ordinanza in epigrafe, emessa il 19 aprile 2024, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Ancona, in funzione di giudice dell’esecuzione, ha parzialmente accolto l’istanza avanzata nell’interesse di ### ###, condannato, con sentenza emessa all’esito di giudizio abbreviato, dal Giudice per le indagini preliminari del suddetto Tribunale del 5 dicembre 2023, irrevocabile il 20 marzo 2024, alle pena di anni due, mesi quattro di reclusione ed euro 800,00 di multa, istanza finalizzata all’applicazione della riduzione della frazione di un sesto della pena, per omessa proposizione dell’impugnazione, ai sensi dell’art. 442, comma 2-bis, cod. proc. pen., e, una volta rideterminata la pena, alla concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena, ai sensi dell’art. 163 cod. pen. Il giudice dell’esecuzione, dopo l’instaurazione del contraddittorio, ritenuta l’applicabilità dell’art. 442, comma 2-bis, cit., ha rideterminato la pena inflitta, rigettando nel resto la domanda. Quanto alla prospettazione disattesa, il giudice dell’esecuzione, pur dopo aver ridotto la pena irrogata ad anni uno, mesi undici, giorni dieci di reclusione ed euro 667,00 di multa, ha ritenuto che, ai fini della verifica dei presupposti per la concessione della sospensione condizionale, la pena rilevante fosse sempre quella irrogata nel giudizio di cognizione, eccedente il limite di legge. Siccome la riduzione della pena di un sesto a cui ### aveva diritto veniva determinata in sede esecutiva, senza che l’art. 676 cod. proc. pen. avesse contemplato la possibilità di adottare in quella sede quel provvedimento ulteriore, mentre per altri ambiti ciò era stato espressamente previsto, al giudice dell’esecuzione non è stato consentito di esercitare in quel caso un potere non conferitogli dall’ordinamento. 2. Avverso tale ordinanza ha proposto ricorso il difensore di ### ### chiedendone l’annullamento e affidando l’impugnazione a un unico motivo con cui lamenta l’inosservanza dell’art. 442, comma 2-bis, cod. proc. pen., in relazione agli artt. 671, 673 e 676 cod. proc. pen., e manifesta illogicità della motivazione. Secondo la difesa, l’affermazione del giudice dell’esecuzione ha aderito a una linea interpretativa orientata per l’assoluta intangibilità del giudicato per concludere nel senso della non deducibilità in sede esecutiva dell’applicazione della sospensione condizionale della pena inflitta, divenuta, in virtù della riduzione per la mancata impugnazione della sentenza di condanna all’esito di abbreviato, compatibile con la disciplina dell’art. 163 cod. pen. Il ricorrente fa osservare che, contrariamente alla tesi sviluppata nel provvedimento oggetto di verifica, si è andato man mano affermando un orientamento che valorizza la funzione del giudice dell’esecuzione al fine di intervenire, quanto alla concessione della sospensione condizionale, in sede esecutiva al fine permettere l’esame del relativo punto a seguito delle novità che hanno mutato la situazione a suo tempo esaminata dal giudice della cognizione: si cita, al riguardo, oltre al caso testuale dell’applicazione della continuazione in sede esecutiva, secondo la disciplina dettata dall’art. 671 cod. proc. pen., anche quella della revoca di condanna per un reato determinata da abolitio criminis, con il richiamo dell’evoluzione giurisprudenziale registratasi sull’argomento anche per l’intervento delle Sezioni Unite. Nella complessiva situazione esaminata, non si ravvisano, da parte della difesa, ragioni logiche che spieghino perché la riduzione disposta ai sensi dell’art. 442, comma 2-bis, cod. proc. pen. non debba concorrere alla determinazione della pena ai fini della concessione della sospensione condizionale della pena, di guisa che, essendo il giudice dell’esecuzione a determinare la corrispondente riduzione, nei suoi poteri deve rientrare anche quello di emettere i provvedimenti conseguenti e, in particolare, la sospensione condizionale della pena stessa. In questa prospettiva, secondo il ricorrente, ove si pervenisse a negare la possibilità dell’esame dell’istanza di sospensione condizionale in sede esecutiva, si approderebbe a una decisione chiaramente contrastante con i principi di parità di trattamento e di legalità, inverati negli artt. 3, 25 e 27 Cost.  3. Il Procuratore generale, con requisitoria articolata, ha chiesto la declaratoria di inammissibilità del ricorso, in quanto, al di fuori dell’art. 671 cod. proc. pen., norma eccezionale, non si prevede la possibilità di concessione della sospensione condizionale della pena in sede esecutiva e l’elaborazione giurisprudenziale si è costantemente espressa in tal senso, non essendo interpretabile in senso contrario l’orientamento maturato in caso di revoca della sentenza di condanna relativamente a reato determinata da abolitio criminis o da dichiarazione di incostituzionalità, per cui il giudice dell’esecuzione si è correttamente attenuto all’orientamento costante, senza violare alcuno dei principi indicati dal ricorrente.  CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è infondato e deve essere, pertanto, rigettato per le ragioni di seguito precisate. 2. È opportuno premettere che l’oggetto del ricorso, al di là del più vasto spettro della materia dedotta innanzi al giudice dell’esecuzione, inerisce esclusivamente alla giuridica possibilità di concedere o meno da parte del giudice dell’esecuzione la sospensione condizionale nell’ipotesi — verificatasi in questo frangente — in cui il condannato, per effetto dell’omessa proposizione dell’impugnazione, ai sensi dell’art. 442, comma 2-bis, cod. proc. pen., della sentenza resa all’esito di giudizio abbreviato, abbia fruito della corrispondente riduzione di pena e, per tale riduzione, la pena stessa si sia ridimensionata in entità per la quale sarebbe divenuta ammissibile, in punto di principio, la concessione della sospensione condizionale della sua esecuzione. Il contraddittorio su questo argomento si è sviluppato in modo rituale. All’esito il giudice dell’esecuzione ha ritenuto esulante dai suoi poteri quello di concedere, all’esito della riduzione della pena garantita dalla norma suindicata al condannato che non impugni la sentenza di condanna pronunciata nei suoi confronti in giudizio svoltosi con il rito abbreviato, in quanto la legge nulla ha previsto in merito e si tratterebbe di ascrivere alla fase esecutiva di un provvedimento ordinariamente previsto per la fase cognitoria.3. Posto ciò, la prospettazione formulata dal ricorrente, volta a far applicare la sospensione condizionale della pena nella fase esecutiva all’esito della suddetta riduzione di pena, ma al di fuori dell’ambito espressamente segnato dalla legge, non può trovare accoglimento. 3.1. In via ordinaria, la sospensione condizionale dell’esecuzione della pena forma oggetto di valutazione da parte del giudice della cognizione, che la concede o la nega formulando le relativa prognosi, pur quando non sussistano precedenti ostativi, secondo la disciplina fissata dagli artt. 163 e ss. cod. pen. In prima approssimazione, quindi, la sospensione condizionale della pena può essere riconosciuta esclusivamente dal giudice della cognizione, che deve valutare la sussistenza delle condizioni oggettive e soggettive richieste dall’art. 163 cod. pen., mentre, in sede esecutiva, il beneficio può essere concesso solo in applicazione della disciplina del concorso formale o della continuazione (Sez. 3, n. 29162 del 27/06/2012, ####, Rv. 253164 – 01). Si è affermato, in tal senso, che in ambito esecutivo, non è suscettibile di applicazione analogica la previsione di cui all’art. 671, comma 3, cod. proc. pen.:  ciò, anche nel caso in cui le pene ostative alla concessione della sospensione condizionale siano state dichiarate estinte per indulto, posto che la concessione di tale beneficio, pur estinguendo la pena e facendone cessare l’espiazione, non elimina gli altri effetti penali scaturenti ope legis dalla condanna (Sez. 1, n. 29877 del 24/03/2023, ###, Rv. 284972 – 01; v. anche Sez. 7, ord., n. 31091 del 15/10/2020, ###, Rv. 279875 – 01). Oltre alla disciplina specifica di cui all’art. 671 cod. proc. pen. (la cui tenuta costituzionale, per aspetti diversi dalla problematica che segue, è stata saggiata: Sez. 3, n. 528 del 05/02/1996, ###, Rv. 204701 – 01; v. inoltre Sez. 1, n. 49582 del 21/09/2022, ###, Rv. 284008 – 01, per la puntualizzazione delle coordinate ermeneutiche inerenti alla norma, anche per ciò che concerne il beneficio della non menzione), si rileva un concreto spazio applicativo dell’istituto della sospensione condizionale in executivis con riferimento alla fattispecie regolata dall’art. 673 cod. proc. pen. In particolare, il giudice dell’esecuzione, qualora, in applicazione di tale norma, pronunci per intervenuta abolitio criminis ordinanza di revoca di precedenti condanne, le quali siano state a suo tempo di ostacolo alla concessione della sospensione condizionale della pena per altra condanna, può, nell’ambito dei “provvedimenti conseguenti” alla suddetta pronuncia, concedere il beneficio, previa formulazione del favorevole giudizio prognostico richiesto dall’art. 164, primo comma, cod. pen., sulla base non solo della situazione esistente al momento in cui era stata pronunciata la condanna in questione, ma anche degli elementi sopravvenuti (Sez. U, n. 4687 del 20/12/2005, dep. 2006, ###, Rv. 232610 – 01); ciò, con la doverosa puntualizzazione che, qualora il giudice dell’esecuzione, pronunci, in applicazione dell’art. 673 cod. proc. pen., per intervenuta abolitio criminis, ordinanza di revoca di precedenti condanne, le quali siano state a suo tempo di ostacolo alla concessione della sospensione condizionale della pena per altra condanna, non può – nell’ambito dei “provvedimenti conseguenti” alla suddetta pronuncia – concedere il beneficio, previa formulazione del favorevole giudizio prognostico richiesto dall’art 164 cod. pen., quando per farlo si determini a esprimere proprie e autonome valutazioni tali da porsi in contrasto con quelle già formulate dal giudice della cognizione (Sez. 1, n. 33817 del 20/06/2014, ###, Rv. 261433 – 01). 3.2. D’altro canto, sia il caso dell’abolitio criminis, sia quello inerente alla declaratoria dell’illegittimità costituzionale della norma incriminatrice determinano sopravvenienze che incidono sul quadro sanzionatorio, per così dire, genetico, nel senso che, la valutazione prognostica da effettuarsi ai sensi dell’art. 164 cod. pen. – in thesi non compiuta in allora – diviene possibile alla stregua del novum sopravvenuto, idoneo a incidere sull’ammissibilità della valutazione che avrebbe dovuto farsi se esso fosse maturato in sede cognitiva. Non può assimilarsi alle ipotesi suddette, suggestivamente evocate dal ricorrente, il caso previsto ora dall’art. 676 cod. proc. pen. in relazione alla fattispecie della modificazione della pena regolata dall’art. 442, comma 2-bis, cod. proc. pen. Essa afferisce, indubbiamente, a uno snodo peculiare, perché determina la riduzione della pena – come però definitivamente irrogata nel giudizio di cognizione – quale beneficio premiale per la scelta di non proseguire il giudizio stesso in sede impugnatoria. È vero che la riduzione di pena matura prima che la pena stessa venga posta in esecuzione, ponendosi essa a cavallo fra la definizione della cognizione e la promozione della fase esecutiva. Ma resta il dato di fatto che il giudice della cognizione, avendo irrogato una pena detentiva superiore ai limiti fissati dall’art. 163 cod. pen., non aveva, in radice, la possibilità giuridica di formulare la valutazione prognostica di cui all’art. 164 cod. pen. Poi, il giudice dell’esecuzione, operando la riduzione automatica derivante dalla mancata impugnazione per cui aveva optato il condannato, ha determinato una pena inferiore ai suddetti limiti fissati dall’art. 163 cod. pen. Però, tale riduzione è intervenuta comunque – e necessariamente – in sede esecutiva, senza che tale postuma modificazione della pena appaia poter influire sugli effetti penali derivanti dalla sua determinazione in sede cognitiva, in mancanza di un’espressa indicazione del legislatore in tal senso. In carenza di una tale indicazione, deve concludersi che è stato evocato da ### un potere non assegnato al giudice dell’esecuzione.  3.3. In merito a questa prospettazione, occorre dunque arrestarsi al rilievo che il riesame in sede esecutiva del punto inerente alla concessione della sospensione condizionale della pena al di fuori dei casi previsti dalla legge non è suscettibile di ammissione generalizzata. Far riferimento, come ha prospettato il ricorrente, all’emanazione dei provvedimenti conseguenti alla disposizione di riduzione della pena, provvedimenti che, anche ai sensi dell’art. 676 cod. proc. pen. – disposizione nell’ambito della quale, prima, il d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, nel comma 1, e, poi, il d.lgs. 19 marzo 2024, n. 31, nel comma 3-bis, hanno collocato la disciplina processuale dell’applicazione della riduzione di pena stabilita dall’art. 442, comma 2-bis, cod. proc. pen. -, competono al giudice dell’esecuzione quando esercita i suoi poteri nella corrispondente sfera di competenze, non appare dirimente. Si considera in contrario che per la stessa estinzione del reato i provvedimenti conseguenti non annoverano in modo meccanicistico e  generalizzato la esaminabilità o riesaminabilità della questione della sospensione condizionale, in relazione alla modificazione o elisione del corrispondente effetto condannatorio. Si richiama, fra l’altro, l’affermazione che, in tema di sentenza di patteggiamento, l’estinzione degli effetti penali conseguente, ai sensi dell’art. 445, comma 2, cod. proc. pen., all’utile decorso del termine di due o cinque anni (secondo che si tratti di delitto o di contravvenzione), deve intendersi limitata, con riferimento alla reiterabilità della sospensione condizionale, ai soli casi in cui sia stata applicata una pena pecuniaria o una sanzione sostitutiva, con la conseguenza che, ove sia stata applicata una sanzione detentiva, di questa occorre comunque tenere conto ai fini della valutazione, imposta dagli artt. 164, ultimo comma, e 163 cod. pen. circa la concedibilità di un secondo beneficio (Sez. U, n. 31 del 22/11/2000, dep. 2001, ###, Rv. 218529 – 01; fra le successive, Sez. 1, n. 47647 del 18/04/2019, ###, Rv. 277457 – 01; Sez. 6, n. 27589 del 22/03/2019, P., Rv. 276076 – 01). 3.4. Pertanto, deve ritenersi non superabile rispetto alla proposta ermeneutica coltivata dalla difesa la constatata carenza, nel descritto sistema, della norma attributiva al giudice dell’esecuzione del potere di prendere in esame la questione della sospensione condizionale all’esito della riduzione di pena disposta ai sensi dell’art. 442, comma 2-bis, cod. proc. pen.. 4. Corollario delle considerazioni svolte è che l’impugnazione deve essere rigettata. Alla reiezione del ricorso segue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso il 9 luglio 2024”. Così Sez. 1, Sentenza n. 37899 del 09/07/2024 Cc.  (dep. 15/10/2024) Rv. 287012 – 01 Presidente: DI NICOLA VITO.  Estensore: SIANI VINCENZO.  Relatore: SIANI VINCENZO.  Imputato: ###. P.M. GARGIULO RAFFAELE. (Parz. Diff.) Rigetta, GIP TRIBUNALE ANCONA, 19/04/2024. […] Read more…
13/12/2024Giudizio: GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE Presidente: BARBERA – Redattore: PETITTI Camera di Consiglio del 15/10/2024;    Decisione  del 15/10/2024 Deposito del 04/11/2024;   Pubblicazione in G. U. 06/11/2024  n. 45 Norme impugnate: Art. 282 ter, c. 1° e 2°, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 12, c. 1°, lett. d), numeri 1) e 2), della legge 24/11/2023. n. 168. Massime:  46398 Atti decisi: ord. 17/2024 Pronuncia SENTENZA N. 173 ANNO 2024 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta da: Presidente: Augusto Antonio BARBERA; Giudici : Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 282-ter, commi 1 e 2, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 12, comma 1, lettera d), numeri 1) e 2), della legge 24 novembre 2023, n. 168 (Disposizioni per il contrasto della violenza sulle donne e della violenza domestica), promosso dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Modena, nel procedimento penale a carico di A. M., con ordinanza del 15 dicembre 2023, iscritta al n. 17 del registro ordinanze 2024 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 9, prima serie speciale, dell’anno 2024. Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 15 ottobre 2024 il Giudice relatore Stefano Petitti; deliberato nella camera di consiglio del 15 ottobre 2024. Ritenuto in fatto 1.– Con ordinanza del 15 dicembre 2023, iscritta al n. 17 del registro ordinanze 2024, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Modena ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 13 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 282-ter, commi 1 e 2, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 12, comma 1, lettera d), numeri 1) e 2), della legge 24 novembre 2023, n. 168 (Disposizioni per il contrasto della violenza sulle donne e della violenza domestica), nella parte in cui, disciplinando la misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, «non consente al giudice, tenuto conto di tutte le specificità del caso concreto e motivando sulle stesse, di stabilire una distanza inferiore a quella legalmente prevista di 500 metri» e al contempo «prevede che, qualora l’organo delegato per l’esecuzione accerti la non fattibilità tecnica delle modalità di controllo, il giudice debba necessariamente imporre l’applicazione, anche congiunta, di ulteriori misure cautelari anche più gravi, senza, invece, possibilità di valutare e motivare, pur garantendo le esigenze cautelari di cui all’art. 274 c.p.p., la non necessità di applicazione del dispositivo elettronico di controllo nel caso concreto». Il giudice a quo espone che nei confronti di A. M. – indagata del reato di atti persecutori, aggravato da preesistente relazione affettiva, a norma dell’art. 612-bis, secondo comma, del codice penale – è stata applicata in data 11 dicembre 2023, su conforme richiesta del pubblico ministero, la misura cautelare del divieto di avvicinamento alla persona offesa, alla di lui madre e alla nuova fidanzata, con l’attivazione del dispositivo elettronico di controllo remoto e con la prescrizione di mantenere dalla persona offesa e dai luoghi dalla stessa abitualmente frequentati – allo stato individuati nella casa di abitazione e nel luogo di lavoro – una distanza di almeno cinquecento metri. L’ordinanza di rimessione aggiunge che i Carabinieri delegati per l’esecuzione della misura hanno evidenziato non esservi nel luogo di residenza dell’indagata una copertura della rete mobile sufficiente al funzionamento del dispositivo elettronico di controllo e non essere comunque possibile l’osservanza della distanza minima legale di cinquecento metri, attese le modeste dimensioni del centro abitato, tali che l’indagata stessa, non solo per andare a lavoro, ma anche per recarsi eventualmente in municipio, farmacia, ufficio postale o alla caserma dei Carabinieri, si troverebbe sempre costretta ad avvicinarsi troppo alla casa della persona offesa. 1.1.– In ordine alla rilevanza delle questioni sollevate, il giudice a quo assume che, alla luce delle censurate previsioni, la fattuale impossibilità di eseguire la misura disposta imporrebbe l’applicazione di una misura più grave, eventualmente congiunta alla prima, della quale tuttavia non vi sarebbe nella specie un’effettiva necessità, posto che l’indagata è persona incensurata, ha una stabile occupazione lavorativa ed è madre di due minori. D’altro canto, non sarebbe praticabile un’interpretazione costituzionalmente orientata, atteso che le norme in questione, per effetto delle modifiche operate dalla legge n. 168 del 2023, stabiliscono testualmente e inderogabilmente sia la distanza minima di cinquecento metri, sia l’impiego del dispositivo di controllo elettronico, senza lasciare al giudice alcun margine di discrezionalità. 1.2.– In ordine alla non manifesta infondatezza delle questioni, il rimettente deduce che le disposizioni censurate appaiono «travalicare i limiti della ragionevolezza e della proporzione, quali corollari del principio di uguaglianza consacrato nell’art. 3 Cost.». Invero, il carattere fisso della distanza minima di cinquecento metri e l’effetto di aggravamento della misura determinato dagli ostacoli tecnici inerenti al dispositivo di controllo impedirebbero di «tenere conto della gravità del fatto, della personalità dell’indagato e di altre specificità che possono presentarsi nel caso sottoposto al giudice (quali, come nel caso di specie, la concreta conformazione del territorio)». In particolare, la distanza minima di cinquecento metri, ragionevole per i grandi centri urbani, nei comuni di piccole dimensioni negherebbe di fatto l’accesso a molti servizi fondamentali, anche attinenti alla salute, risultando quindi insufficiente la previsione del comma 4 dello stesso art. 282-ter cod. proc. pen., il quale consente una modulazione del divieto solo per motivi di lavoro o per esigenze abitative. Risulterebbe altresì violato l’art. 13 Cost., sotto il profilo della riserva di giurisdizione sulla misura restrittiva della libertà personale, in quanto sia l’estensione dell’area interdetta, sia le conseguenze di aggravamento degli ostacoli tecnici, sarebbero stabilite dal legislatore «direttamente ed indiscriminatamente». 2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto dichiararsi le questioni non fondate. Ad avviso dell’interveniente, la predeterminazione normativa della distanza di cinquecento metri, «proprio in considerazione della limitazione dei diritti dell’indagato, appare conforme ai principi di legalità e determinatezza delle misure cautelari». D’altronde, il giudice conserverebbe ampia discrezionalità nell’applicazione «delle comuni regole di valutazione dell’adeguatezza e della proporzionalità della misura per il caso concreto». Anche nell’ipotesi di non fattibilità tecnica del controllo elettronico non sarebbe preclusa, e sarebbe anzi doverosa, «l’applicazione graduale delle varie prescrizioni», secondo i criteri generali di cui all’art. 275 cod. proc. pen. Considerato in diritto 1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe, il GIP del Tribunale di Modena ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 282-ter, commi 1 e 2, cod. proc. pen., come modificato dall’art. 12, comma 1, lettera d), numeri 1) e 2), della legge n. 168 del 2023. Nel prevedere come inderogabili la distanza minima di cinquecento metri e l’attivazione del dispositivo di controllo elettronico, quali forme esecutive della misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, e prescrivendo l’applicazione di ulteriori anche più gravi misure cautelari nell’ipotesi di non fattibilità tecnica del controllo remoto, le disposizioni censurate violerebbero gli artt. 3 e 13 Cost. La rigidità applicativa di tali disposizioni impedirebbe al giudice di adeguare la misura coercitiva alle esigenze cautelari della fattispecie concreta, sicché le disposizioni stesse, per un verso, travalicherebbero «i limiti della ragionevolezza e della proporzione, quali corollari del principio di uguaglianza», per l’altro, invaderebbero la riserva di giurisdizione concernente la restrizione della libertà personale dell’indagato. 2.– Intervenuto in giudizio tramite l’Avvocatura generale dello Stato, il Presidente del Consiglio dei ministri ha chiesto dichiararsi le questioni non fondate, sull’assunto che le norme contestate non privino il giudice della discrezionalità necessaria ad attuare gli ordinari criteri di adeguatezza e proporzionalità della misura cautelare. 3.– Le questioni non sono fondate, nei termini che seguono. 4.– La diffusione della violenza di genere e dei femminicidi ha indotto il legislatore a reiterati interventi volti alla difesa delle persone vulnerabili. Una componente essenziale del disegno legislativo è rappresentata dalle misure cautelari, specificamente l’allontanamento dalla casa familiare e il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, misure disciplinate, rispettivamente, dagli artt. 282-bis e 282-ter cod. proc. pen. La rilevanza funzionale di queste misure è sottolineata dall’essere le stesse puntuale trasposizione dell’ordine di protezione europeo, di cui al decreto legislativo 11 febbraio 2015, n. 9 (Attuazione della direttiva 2011/99/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011 sull’ordine di protezione europeo), sia nella procedura “attiva”, quando cioè l’ordine è emesso dal giudice italiano (art. 5), sia nella procedura “passiva”, nella quale il giudice italiano riconosce un ordine emesso all’estero (art. 9). 4.1.– Il divieto di avvicinamento è stato previsto già dall’art. 282-bis cod. proc. pen., introdotto dall’art. 1, comma 2, della legge 4 aprile 2001, n. 154 (Misure contro la violenza nelle relazioni familiari). Come detto, l’art. 282-bis disciplina l’allontanamento dalla casa familiare, ma, al comma 2, prevede l’eventuale ordine aggiuntivo di non avvicinamento «a luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa». Successivamente, l’avvertita necessità di includere nella sfera di protezione le relazioni non fondate sulla condivisione della casa familiare ha portato il legislatore a configurare il divieto di avvicinamento anche quale misura autonoma, a tal fine provvedendo l’art. 282-ter cod. proc. pen., inserito dall’art. 9, comma 1, lettera a), del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, nella legge 23 aprile 2009, n. 38. L’art. 7, comma 1, dello stesso d.l. n. 11 del 2009, come convertito, ha inserito altresì l’art. 612-bis cod. pen., introducendo il reato di atti persecutori (cosiddetto stalking), rispetto al quale la misura cautelare del divieto di avvicinamento ha una specifica funzione protettiva. 4.2.– L’art. 15, comma 2, della legge 19 luglio 2019, n. 69 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere) – nota come legge sul “codice rosso” – ha aggiunto, alla fine del comma 1 dell’art. 282-ter cod. proc. pen., le parole «anche disponendo l’applicazione delle particolari modalità di controllo previste dall’articolo 275-bis», vale a dire l’utilizzo dei mezzi tecnici di controllo remoto che l’art. 275-bis cod. proc. pen. prevede per gli arresti domiciliari. La possibilità di assistere il divieto di avvicinamento con il dispositivo di controllo tecnico – cosiddetto braccialetto elettronico – ha corrisposto all’esigenza di accentuare la funzione protettiva della misura, che per i reati di genere si pone in termini peculiari. 4.3.– Il controllo elettronico è stato introdotto appunto per gli arresti domiciliari, con l’inserimento dell’art. 275-bis cod. proc. pen., ad opera dell’art. 16, comma 2, del decreto-legge 24 novembre 2000, n. 341 (Disposizioni urgenti per l’efficacia e l’efficienza dell’Amministrazione della giustizia), convertito, con modificazioni, nella legge 19 gennaio 2001, n. 4. Il testo originario dell’art. 275-bis rimetteva l’applicazione del controllo remoto al giudice («se lo ritiene necessario»), mentre il testo odierno, modificato dall’art. 1, comma 1, lettera a), del decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 146 (Misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria), convertito, con modificazioni, nella legge 21 febbraio 2014, n. 10, sancisce una presunzione relativa di adeguatezza di tali procedure tecniche («salvo che le ritenga non necessarie»), sicché gli arresti domiciliari con controllo elettronico sono adesso la regola e quelli “semplici” l’eccezione (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 28 aprile-19 maggio 2016, n. 20769). 4.4.– Quale modalità esecutiva del divieto di avvicinamento, il controllo elettronico ha una funzione dedicata, che ne distingue la stessa operatività pratica. Invero, mentre negli arresti domiciliari il braccialetto è un presidio unidirezionale, che consente alle forze dell’ordine di monitorare un’eventuale evasione, nel divieto di avvicinamento esso è un presidio bidirezionale, che, in caso di avvicinamento vietato, allerta non solo le forze dell’ordine, ma anche la vittima, dotata di apposito ricettore. Il divieto di avvicinamento può essere sia un divieto “fisso”, riferito a luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa – luoghi che occorre dunque indicare nell’ordinanza applicativa (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 29 aprile-28 ottobre 2021, n. 39005) –, sia un divieto “mobile”, riferito proprio alla persona offesa, nel qual caso l’avvicinamento può dipendere anche dalla casualità degli spostamenti e la pertinente segnalazione si rivela viepiù essenziale in funzione di allerta. 4.5.– Ispirata dalla ratio di massimizzare la capacità difensiva del tracciamento di prossimità, la legge n. 168 del 2023 (“nuovo codice rosso”) ha reso obbligatorio il controllo elettronico nel divieto di avvicinamento: l’art. 12, comma 1, lettera d), numero 1), ha eliso la congiunzione «anche» che nel testo anteriore del comma 1 dell’art. 282-ter cod. proc. pen. precedeva l’inciso «disponendo l’applicazione delle particolari modalità di controllo previste dall’articolo 275-bis»; e ha pure stabilito che, «qualora l’organo delegato per l’esecuzione accerti la non fattibilità tecnica delle predette modalità di controllo, il giudice impone l’applicazione, anche congiunta, di ulteriori misure cautelari anche più gravi». In funzione della medesima ratio di tutela, sempre l’art. 12, comma 1, lettera d), numero 1), della citata legge ha ulteriormente modificato il comma 1 dell’art. 282-ter cod. proc. pen., fissando una distanza minima per il divieto di avvicinamento, che deve essere «comunque» non inferiore a cinquecento metri. L’art. 12, comma 1, lettera d), numero 2), della stessa legge, modificando il comma 2 dell’art. 282-ter cod. proc. pen., ha riferito la distanza minima e il controllo elettronico obbligatorio pure all’eventuale tutela dei prossimi congiunti della persona offesa e delle persone con questa conviventi o a questa legate da relazione affettiva. Analoghe modifiche normative – circa la distanza minima di cinquecento metri, l’applicazione obbligatoria del braccialetto elettronico e le conseguenze della sua non fattibilità tecnica – hanno riguardato il divieto di avvicinamento quale prescrizione accessoria dell’ordine di allontanamento dalla casa familiare, per effetto dell’intervento sul comma 6 dell’art. 282-bis cod. proc. pen. operato dall’art. 12, comma 1, lettera c), numeri 3) e 4), della più volte citata legge n. 168 del 2023. 4.6.– Le sopra descritte modifiche non hanno viceversa interessato il divieto di avvicinamento disposto in fase precautelare, quale prescrizione accessoria dell’allontanamento d’urgenza dalla casa familiare, di cui all’art. 384-bis cod. proc. pen., norma, quest’ultima, inserita dall’art. 2, comma 1, lettera d), del decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93 (Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province), convertito, con modificazioni, nella legge 15 ottobre 2013, n. 119. Nonostante sia intervenuta anche sulla disciplina di questa misura precautelare, in origine adottabile solo in flagranza di reato, e ora invece anche al di fuori di essa, la legge n. 168 del 2023, all’art. 11, comma 1, non ha esteso a tale misura l’irrigidimento delle modalità esecutive viceversa previsto per la misura cautelare. 5.– Ad avviso del rimettente, l’inderogabilità della distanza minima di cinquecento metri e l’obbligatorietà del dispositivo di controllo elettronico renderebbero la misura cautelare del divieto di avvicinamento tanto rigida da precluderne ogni adeguamento alle esigenze cautelari del caso concreto, imponendone peraltro l’aggravamento nel caso in cui – come nella specie – le piccole dimensioni del centro abitato e l’assenza di una sufficiente copertura di rete, aspetti evidentemente non imputabili all’indagato, determinino l’oggettiva inattuabilità di una misura siffatta. Tali argomenti intendono evocare la giurisprudenza costituzionale sugli automatismi nelle misure cautelari, sebbene già in prima battuta debba notarsi che l’applicazione del braccialetto elettronico non è di per sé una misura cautelare, ma ne è soltanto una modalità applicativa (Cass., sez. un., sentenza n. 20769 del 2016). 5.1.– A partire dalla sentenza n. 265 del 2010 (ma in senso analogo già la sentenza n. 299 del 2005), questa Corte ha più volte affermato che la coercizione cautelare, in ossequio al principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost. e al favor libertatis ex art. 13 Cost., deve rispondere ai criteri del minor sacrificio necessario e dell’individualizzazione, non essendo tollerabili automatismi, né presunzioni assolute (l’indirizzo è compendiato dalla sentenza n. 232 del 2013 e in ultimo richiamato dalla sentenza n. 22 del 2022). Detto orientamento ha trasformato da assoluta in relativa la presunzione di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere per gran parte dei reati elencati dall’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., fino al recepimento del principio nell’art. 4, comma 1, della legge 16 aprile 2015, n. 47 (Modifiche al codice di procedura penale in materia di misure cautelari personali. Modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di visita a persone affette da handicap in situazione di gravità), che, intervenendo proprio sull’art. 275, comma 3, ha mantenuto la presunzione assoluta unicamente per i delitti associativi di cui agli artt. 270, 270-bis e 416-bis cod. pen. Con riferimento a tale tipologia di reati, e al persistente automatismo custodiale, questa Corte, investita delle censure ex artt. 3, 13 e 27 Cost., ha dichiarato le stesse manifestamente infondate (ordinanza n. 136 del 2017, per il reato ex art. 416-bis cod. pen.) o non fondate (sentenza n. 191 del 2020, per il reato ex art. 270-bis cod. pen.). Tali decisioni hanno fatto leva sull’eccezionale pericolosità correlata alla normale persistenza del vincolo associativo (mafioso o terroristico), a fronte della quale si è ritenuto non censurabile il bilanciamento effettuato dal legislatore, con la finalità di prevenire il rischio di un’«eventuale sopravvalutazione, da parte del giudice, dell’adeguatezza di una misura non carceraria» (sentenza n. 191 del 2020). 5.2.– Nel porre le norme oggi in scrutinio a confronto con il richiamato indirizzo giurisprudenziale, va tenuto presente che esse non hanno ad oggetto la misura cautelare estrema – vale a dire la custodia in carcere –, ma una misura cautelare di assai minore impatto sulla libertà personale dell’indagato, qual è il divieto di avvicinamento, e con riferimento solo a particolari modalità applicative di tale divieto, inerenti alla distanza minima e al controllo remoto. Ogni considerazione si sposta quindi sul piano del bilanciamento tra i valori in tensione: da un lato, la libertà di movimento della persona indagata, dall’altro, l’incolumità fisica e psicologica della persona minacciata. 5.3.– Il braccialetto elettronico – dispositivo di scarso peso, applicato alla caviglia dell’indagato e quindi normalmente invisibile ai terzi – non impedisce alla persona soggetta al divieto di avvicinamento di uscire dalla propria abitazione e soddisfare tutte le proprie necessità di vita, purché essa non oltrepassi il limite dei cinquecento metri dai luoghi specificamente interdetti o da quello in cui si trova la vittima del reato in relazione al quale il divieto stesso è stato disposto. La distanza indicata non appare in sé esorbitante, e corrisponde alla funzione pratica del tracciamento di prossimità, che è quella di dare uno spazio di tempo sufficiente alla potenziale vittima di più gravi reati per trovare sicuro riparo e alle forze dell’ordine per intervenire in soccorso. Negli abitati più piccoli la distanza di cinquecento metri può rivelarsi stringente, ma, ove ciò si verifichi, all’indagato ne viene un aggravio che può ritenersi sopportabile, quello di recarsi nel centro più vicino per trovare i servizi di cui necessita, senza rischiare di invadere la zona di rispetto. Qualora poi rilevino «motivi di lavoro» o «esigenze abitative», la cui individuazione è rimessa al giudice che dispone la misura, il comma 4 dell’art. 282-ter cod. proc. pen. già consente al giudice stesso di stabilire modalità particolari di esecuzione del divieto di avvicinamento, restituendo così all’applicazione della misura margini di flessibilità. A un sacrificio relativamente sostenibile per l’indagato si contrappone l’impellente necessità di salvaguardare l’incolumità della persona offesa, la cui stessa vita è messa a rischio dall’imponderabile e non rara progressione dal reato-spia (tipicamente lo stalking) al delitto di sangue. 5.4.– Oltre che non irragionevole, questo bilanciamento asseconda il criterio di priorità enunciato dall’art. 52 della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, fatta a Istanbul l’11 maggio 2011, ratificata e resa esecutiva con legge 27 giugno 2013, n. 77. Nel disciplinare le misure urgenti di allontanamento imposte dal giudice, inclusive del divieto di avvicinamento, la norma convenzionale stabilisce infatti che deve darsi «priorità alla sicurezza delle vittime o delle persone in pericolo». Il controllo elettronico nell’attuazione delle ordinanze restrittive e degli ordini di protezione è inoltre specificamente previsto dalla direttiva (UE) 2024/1385 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 14 maggio 2024, sulla lotta alla violenza contro le donne e alla violenza domestica (considerando 46). 5.5.– L’ultimo periodo del comma 1 dell’art. 282-ter cod. proc. pen. («qualora l’organo delegato per l’esecuzione accerti la non fattibilità tecnica delle predette modalità di controllo, il giudice impone l’applicazione, anche congiunta, di ulteriori misure cautelari anche più gravi») sembra stabilire, con la locuzione «impone», un aggravamento automatico del divieto di avvicinamento, quale effetto di un dato oggettivo, non imputabile all’indagato, cioè appunto la «non fattibilità tecnica» del controllo elettronico. La norma può essere tuttavia interpretata in senso costituzionalmente adeguato, valorizzando la particella «anche», che vi figura a delimitare il comparativo «più gravi». Se ne trae conferma dal raffronto con il penultimo periodo dello stesso comma 1 dell’art. 282-ter cod. proc. pen., laddove, per la differente ipotesi nella quale il controllo elettronico risulti impossibile per il diniego di consenso dell’indagato, quindi per un fatto a lui imputabile, si prevede l’applicazione incondizionata «di una misura più grave». Pertanto, se l’indagato consente a indossare il dispositivo e questo non può funzionare per motivi tecnici (quale il difetto della copertura di rete), il giudice non è tenuto a imporre una misura più grave del divieto di avvicinamento, ma deve rivalutare le esigenze cautelari della fattispecie concreta, potendo, all’esito della rivalutazione, in base ai criteri ordinari di adeguatezza e proporzionalità, scegliere non solo una misura più grave (in primis, il divieto od obbligo di dimora ex art. 283 cod. proc. pen.), ma anche una misura più lieve (segnatamente, l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria ex art. 282 cod. proc. pen.). 5.6.– In buona sostanza, si riproduce per il divieto di avvicinamento, quindi per una misura di scala inferiore, il modulo di rivalutazione delle esigenze cautelari individuato dalle sezioni unite della Corte di cassazione per l’ipotesi di indisponibilità del braccialetto elettronico negli arresti domiciliari: inattuabili gli arresti con controllo elettronico, non subentra alcun automatismo, né a favore dell’indagato (arresti “semplici”), né a suo sfavore (custodia in carcere), occorrendo invece rivalutare l’idoneità, la necessità e la proporzionalità di ciascuna misura in relazione alle esigenze cautelari del caso concreto (Cass., sez. un., n. 20769 del 2016). Mutatis mutandis, impraticabile il divieto di avvicinamento con braccialetto elettronico per ragioni di non fattibilità tecnica, il giudice deve rivalutare la fattispecie concreta senza preclusioni, né automatismi, e quindi, in aderenza alle regole comuni di adeguatezza e proporzionalità, come può aggravare la coercizione cautelare, così può alleviarla. 6.– Nei sensi sopra esposti, le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal GIP del Tribunale di Modena vanno pertanto dichiarate non fondate. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 282-ter, commi 1 e 2, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 12, comma 1, lettera d), numeri 1) e 2), della legge 24 novembre 2023, n. 168 (Disposizioni per il contrasto della violenza sulle donne e della violenza domestica), sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 13 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Modena, con l’ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 15 ottobre 2024. F.to: Augusto Antonio BARBERA, Presidente Stefano PETITTI, Redattore Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria Depositata in Cancelleria il 4 novembre 2024 Il Direttore della Cancelleria F.to: Roberto MILANA Per maggiori approfondimenti, vedi anche: Stalking, maltrattamenti e violenza sessuale: le vittime sono sempre ammesse al gratuito patrocinio, a prescindere dal reddito […] Read more…
05/12/2024“Corte d’Appello di Ancona Sentenza n. 384/2024 del 05-03-2024 R.G. n. 503/2021 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE DI APPELLO DI ANCONA Riunita in camera di consiglio e composta da: Dott. Federico Guido, Marchetti Neda, Bellucci Cecilia Laura est. ha pronunciato la seguente SENTENZA nel procedimento civile in grado d’appello iscritto al n. 503/2021 R.G. (…) OGGETTO: appello avverso la sentenza del Tribunale di Urbino 239/2020, pubblicata il ### FATTI DI CAUSA I.) Il Tribunale di Urbino, con la sentenza indicata in epigrafe, pronunciando sulla domanda proposta da ###, quale procuratore di ### ### ha dichiarato che ### ed ### sono eredi legittimi, in misura di 1/3 ciascuno, di ### deceduto il ### in Cagli (PU), in ragione dell’intervenuta accettazione tacita dell’eredità del medesimo. Il giudice di primo grado ha ritenuto che la voltura catastale dell’immobile effettuata da ### quale coerede in misura di 1/3, era stata eseguita anche in favore dei due figli, in conformità alla norma di cui all’art. 581 c.c., tenuto conto anche del contegno inerte di ### e di ### (i quali non avevano rinunciato all’eredità), tale da sottintendere l’esistenza di un previo mandato alla madre e da risolversi nell’evidente ratifica delle operazioni compiute dalla ###. Il Tribunale ha inoltre condannato ### e ### costituiti nel giudizio di primo grado, al pagamento, in favore di ### s.p.a., della somma di €. 1.000,00, ciascuno, ai sensi dell’art. 96, ultimo comma, c.p.c., ed ha posto a carico degli stessi, in solido, le spese di lite, liquidate in €. 5.355,00 per compensi, con rimborso forfettario del 15% delle spese generali ed €. 268,00 per ulteriori spese, oltre C.P.A. e I.V.A. come per legge; ha infine compensato le spese di giudizio tra ### ### e la parte contumace, ### II.) ### ha proposto appello avverso la suddetta sentenza censurando le argomentazioni in base alle quali il primo giudice ha ravvisato l’intervenuta accettazione tacita di eredità (primi due motivi) ed ha ritenuto sussistente un abuso del processo attuato dal medesimo ### oltreché dalla madre (terzo motivo); ha chiesto, quindi, in riforma della sentenza impugnata, la reiezione delle domande avversarie. III.) Con separato atto ha proposto appello anche ### la quale, articolando due motivi di gravame, ha censurato le statuizioni di condanna al pagamento delle spese processuali e ai sensi dell’art. 96 c.p.c.: ha quindi chiesto, in riforma della sentenza impugnata, di accogliere le conclusioni articolate innanzi al Tribunale e quindi di “decidere secondo giustizia sulle domande proposte da ### compensando integralmente le spese del giudizio”. RAGIONI DELLA DECISIONE 1.) Deve essere esaminata, preliminarmente, la eccezione di “carenza di legittimazione passiva/attiva della società” ### s.r.l., sollevata da ### con le note di trattazione scritta del 10.1.2022 (depositate per la prima udienza del 12.1.2022), illustrata con gli scritti difensivi finali: il predetto appellante ha contestato la sussistenza, in capo alla società costituitasi quale cessionaria del credito in sostituzione di ### s.p.a., della titolarità del diritto dedotto da quest’ultima a sostegno della domanda proposta in primo grado, non avendo la appellata dimostrato l’inclusione del credito per cui è causa tra quelli ceduti, per effetto della mancata produzione del contratto di cessione intervenuto con la ### cedente e dell’elenco delle posizioni cedute. 2.2) ### s.r.l. ha contestato la eccezione avversaria con la memoria di replica depositata ex art. 190 c.p.c. valorizzando l’estratto dell’avviso di cessione del credito per cui è causa, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana n. 145 del 7/12/2021, in favore della ### S.r.l. (doc. n. 4 allegato alla comparsa di costituzione ed intervento in appello), in cui si legge che, tra i crediti ceduti, rientrano quelli derivanti da prestiti personali o da finanziamenti erogati in altre forme tecniche concessi a persone fisiche e giuridiche, i cui debitori sono stati classificati a sofferenza, compreso quindi, secondo l’appellata, anche il credito di cui si discute, vantato nei confronti di ### e la disponibilità, in capo ad ### s.r.l., del titolo esecutivo azionato nei confronti dell’appellante, dimostrata dalla avvenuta produzione del titolo stesso nel presente grado di giudizio ( doc. n. 5 contenuto nel fascicolo del procedimento di primo grado, allegato sub doc. n. 5 alla comparsa di ### del 5.1.2022). 2.3) La eccezione è fondata. La pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale dell’avvenuta cessione del credito è sufficiente a dispensare il cessionario dall’obbligo della notificazione ex art. 1264 c.c. nei confronti del debitore (Cass. ord. 20495/2020), ma non anche a provare la legittimazione processuale, poiché, come osservato dalla Suprema Corte, “la parte che agisca affermandosi successore a titolo particolare del creditore originario, in virtù di un’operazione di cessione in blocco secondo la speciale disciplina di cui all’art. 58 del d.lgs. n. 385 del 1993, ha anche l’onere di dimostrare l’inclusione del credito medesimo in detta operazione, in tal modo fornendo la prova documentale della propria legittimazione sostanziale, salvo che il resistente non l’abbia esplicitamente o implicitamente riconosciuta” (Cass. ord. 24798/2020). La giurisprudenza di legittimità ha altresì chiarito che “In tema di cessione in blocco dei crediti da parte di una banca, ai sensi del D. lgs. n. 385 del 1993 art. 58 è sufficiente a dimostrare la titolarità del credito in capo al cessionario la produzione dell’avviso di pubblicazione sulla ### recante l’indicazione per categorie dei rapporti ceduti in blocco, senza che occorra una specifica enumerazione di ciascuno di essi, allorché gli elementi comuni presi in considerazione per la formazione delle singole categorie consentano di individuare senza incertezze i rapporti oggetto della cessione” (tra le altre, Cass. 15884/2019). Nel caso di specie la appellata ### s.r.l. ha allegato la copia della ### nella quale risulta pubblicato l’avviso di cessione in suo favore “di un portafoglio di crediti pecuniari (per capitale, interessi, anche di mora, accessori, spese, ulteriori danni indennizzi e quant’altro) di titolarità ### – derivanti, per ciascuno di essi, da rapporti di credito ai consumatori, prestiti personali o da finanziamenti erogati in altre forme tecniche concessi a persone fisiche e persone giuridiche e i cui debitori sono stati classificati ‘a sofferenza’ ai sensi della ### della ### d’### n. 272/2008 (### dei ### e segnalati in ‘### dei ai sensi della ### della ### d’### 139/1991 (i ‘###), come risultanti da apposita lista in cui è indicato, con riferimento a ciascuno debitore ceduto, il codice identificativo del rapporto da cui ha avuto origine uno o più crediti vantati da ### nei confronti del relativo debitore ceduto. Tale lista è ### depositata presso il ### avente sede ###atto di deposito ### 8307 e ### 4797 e ### pubblicata, ai sensi dell’articolo 7.1 della Legge 130, sul seguente sito internet https://www.securitisation-services.com/it/ fino alla loro estinzione. I dati indicativi dei crediti ceduti, nonché la conferma dell’avvenuta cessione per i debitori ceduti che ne faranno richiesta, sono messi a disposizione da parte del cedente e del cessionario sul sito internet sopra indicato e resteranno disponibili fino all’estinzione del relativo credito ceduto”. La documentazione prodotta (avviso di cessione pubblicato nella G.U.) non contiene tutti gli elementi necessari al fine di identificare con precisione il credito, in modo tale da poter affermare con certezza la sua inclusione nella cessione. Il generico riferimento ad un “portafoglio di crediti” e la mancanza di qualsiasi specificazione del periodo al quale sono riconducibili i crediti ceduti non permettono di ritenere che tutti i crediti, compresi nelle categorie indicate, abbiano costituto oggetto di cessione né quindi di affermare con certezza la inclusione nella cessione ### del credito che ha dato origine alla azione proposta (originariamente da ### quale procuratore di ### s.p.a.), non essendo a tal fine sufficienti i riferimenti ad un link e ad una lista depositata presso il ### dovendo risultare già dall’avviso di pubblicazione, come innanzi rilevato, che il credito sia ricompreso tra quelli oggetto di cessione, senza alcun margine di incertezza. Né al fine di pervenire ad una diversa conclusione è decisivo il fatto che la odierna appellata abbia allegato in questa sede il fascicolo di parte del procedimento di primo grado contenente anche il decreto ingiuntivo (che rappresenta la fonte del credito nei confronti di ### fideiussore di ### titolare della impresa individuale “### di ###”), in mancanza di altri elementi di prova idonei a dimostrare la inclusione di quel credito nella operazione di cessione quali, per esempio, un estratto della lista depositata presso il ### richiamata nell’inserzione in G.U. da cui poter evincere chiaramente il nominativo del debitore, il codice identificativo del credito ceduto o, quantomeno, l’indicazione dello specifico rapporto di credito debito. Per le considerazioni svolte e alla luce dei principi affermati dalla Suprema Corte sopra illustrati, la documentazione prodotta non è idonea a documentare la effettiva titolarità del diritto di credito in base al quale è stata originariamente proposta la domanda giudiziale: in difetto di prova della qualità di cessionaria del credito in capo ad ### s.r.l. va accolta la eccezione sollevata dall’appellante e, di conseguenza, va dichiarata la inammissibilità dell’intervento della predetta società, costituitasi nel presente giudizio. 3.1.1) Passando ad esaminare i motivi di gravame articolati da ### si osserva che quest’ultimo, con il primo motivo, contesta la pronuncia impugnata nella parte in cui il Tribunale ha ritenuto inverosimile che la ### nel procedere alla voltura catastale dell’immobile, abbia agito di sua iniziativa, senza alcun previo confronto con i figli, anzi nel dissenso di questi. Secondo l’appellante non è pertinente il richiamo al secondo comma dell’art. 115 c.p.c. poiché nella specie il Tribunale non ha applicato alcuna “nozione di fatto”, ma ha svolto solo illazioni personali prive di qualsiasi riferimento con la realtà processuale. ### inoltre si duole del fatto che il primo giudice ha erroneamente accomunato la posizione dei due convenuti costituiti, atteso che, mentre ### ha eccepito l’omessa prova di atti d’accettazione tacita dell’eredità, la ### non ha svolto alcuna attività difensiva, dichiarando di non opporsi all’accoglimento della domanda. Secondo l’appellante, inoltre, la decisione impugnata è in gran parte fondata su un’errata lettura degli atti processuali, posto che la ### non ha mai affermato di essere l’unica erede del coniuge defunto, a differenza di quanto ritenuto dal Tribunale. In ogni caso, l’appellante, contestando la ricostruzione operata dal primo giudice, esclude che ### e ### abbiano rilasciato un preventivo mandato alla madre (### per la presentazione della denuncia di successione e della domanda di voltura catastale, contestando altresì l’intervenuta ratifica di tali operazioni. 3.1.2) Il primo motivo di gravame è infondato. Invero, come chiarito dalla Suprema Corte, “l’accettazione tacita di eredità pur potendo avvenire attraverso negotiorum gestio, cui segua la successiva ratifica del chiamato, o per mezzo del conferimento di una delega o dello svolgimento di attività procuratoria – può tuttavia desumersi soltanto da un comportamento del successibile e non di altri, sicché non ricorre ove solo l’altro chiamato all’eredità, in assenza di elementi dai quali desumere il conferimento di una delega o la successiva ratifica del suo operato, abbia fatto richiesta di voltura catastale di un immobile del de cuius (Cass. n. 8980/2017)” (cfr. civ., Sez. VI, n. ### del 11/11/2021). E’ pacifico che ### in seguito al decesso del coniuge avvenuto nel 1998, nel procedere alla dichiarazione di successione ed alla correlata voltura catastale dell’immobile ereditario, ha affermato la propria qualità di coerede nella misura di 1/3: il bene risulta intestato in tale misura alla medesima e ai due figli, ### e ### e sottoposto a pignoramento, limitatamente ai diritti di piena proprietà spettanti, per la quota di 1/3, a ### con atto notificato al medesimo il ###: tali circostanze risultano dagli scritti difensivi depositati dalle parti nel giudizio di primo grado e dalla documentazione dalle stesse prodotta nonché dalla domanda e relativo atto di voltura acquisiti in seguito all’ordine di esibizione e non hanno costituito oggetto di contestazione (v. fascicolo di primo grado e relativi atti e documenti, depositati in via telematica). ### alla richiesta di voltura catastale dell’immobile, oggetto del compendio ereditario, è ricollegabile ai componenti del nucleo familiare del defunto, costituito dalla moglie e dai due figli, tenuto conto dello strettissimo rapporto di parentela tra le parti e del fatto che l’acquisizione dell’immobile al patrimonio dei tre eredi, per successione legittima, rappresentava una naturale ed automatica conseguenza del loro interesse concreto, in mancanza di elementi contrari alla accettazione dell’eredità paterna da parte dei figli e, per quanto rileva in questa sede ###sono stati allegati dal medesimo nel corso del giudizio innanzi al Tribunale. In tale contesto, il lungo lasso di tempo trascorso dalla presentazione della denuncia di successione e dalla voltura catastale dell’immobile ereditario (1998) ed il fatto che ### in tale periodo, non ha posto in discussione l’operato della madre, neanche in seguito alla notifica dell’atto di pignoramento dei diritti di proprietà al medesimo spettanti sull’immobile ereditario (non risulta infatti che egli abbia contestato l’iniziativa del creditore procedente escludendo di essere comproprietario del bene pignorato), rappresentano elementi che, valutati complessivamente, inducono a ritenere sussistente la piena ratifica dell’operato della sig.ra ### che aveva effettuato la voltura anche nell’interesse dei figli e, in particolare, dell’appellante ###. Pertanto, poiché, per le considerazioni svolte, la voltura dell’immobile è riferibile anche a quest’ultimo, il motivo in esame va respinto. Da ciò discende che la parziale modifica della sentenza di primo grado non influisce in maniera significativamente apprezzabile sulla valutazione complessiva già eseguita dal giudice di primo grado ai fini della statuizione sulle spese di lite che va quindi confermata sia nella quantificazione che nella regolamentazione. P.Q.M. la Corte di Appello di Ancona, pronunciando sull’appello proposto da ### e su quello proposto da ### avverso la sentenza del Tribunale di Urbino n. 239/2020, pubblicata il ###, respinta ogni contraria e diversa istanza, così provvede: dichiara inammissibile l’intervento di ### ### costituitasi nel presente giudizio; in parziale accoglimento degli appelli e in parziale riforma della sentenza impugnata, revoca la pronuncia di condanna ai sensi dell’art. 96 III comma c.p.c. nei confronti di ### e di ### respinge per il resto gli appelli e conferma la sentenza impugnata; condanna ### ed ### in solido, a rifondere alla parte ricorrente le spese del giudizio di primo grado liquidate in €. 5.355,00 per compensi, oltre spese generali al 15%, e in €. 286,00 per spese, ed oltre IVA e ### come per legge; compensa le spese del giudizio di primo grado tra la parte ricorrente e ### dichiara compensate tra tutte le parti le spese del presente grado di giudizio. Così deciso in Ancona il ###. […] Read more…
08/10/2024“La sostanza stupefacente veniva sottoposta a sequestro. La perquisizione personale, invece, dava esito negativo. A seguito della richiesta di abbreviato condizionato all’analisi quantitativa e qualitativa dello stupefacente avanzata dall’imputato, veniva disposta perizia rimessa al Prof. xxxxx che dava i seguenti risultati. Sotto un profilo qualitativo, la sostanza sequestrata e analizzata è risultata essere di tipo marijuana (…). Quanto la quantità di principio attivo THC riscontrata nei due reperti sequestrati, è emerso che il primo reperto, dal peso complessivo di 17,98 grammi conteneva 14,38 mg di principio attivo; il secondo, dal peso complessivo di 65,71 grammi, conteneva 78.85 milligrammi di THC. 2. Le ragioni della pronuncia assolutoria. Pacifica la detenzione in capo all’imputato della sostanza sequestrata, l’analisi della stessa consentito di quantificare i livelli di THC aventi efficacia drogante. In relazione al THC, il legislatore in passato aveva individuato due soglie, una corrispondente al quantitativo massimo di 500 mg, l’altra la dose media singola efficace, pari a 25 mg.. La dose media singola efficace può essere considerata come la quantità di principio attivo per singola assunzione idonea a produrre in un soggetto tollerante e dipendente un effetto stupefacente e psicotropo (c.d. “efficacia drogante”).  Nel caso in esame, Il perito ha concluso per un numero potenziale di dosi ricavabili della sostanza in sequestro pari a 3-4 dosi medi efficaci. Il dato ponderale dello stupefacente certamente uno degli indicatori privilegiati al fine di valutare l’uso personale o la detenzione ai fini di spaccio della sostanza. Tuttavia, anche qualora la quantità forse ingente, ciò non determina alcuna presunzione di destinazione della droga per un uso non personale, dovendogli il giudice valutare globalmente, anche sulla base degli ulteriori parametri normativi, se, assieme al dato quantitativo (che acquista maggiore rilevanza iniziale alla crescita del numero delle dosi ricavabili), le modalità di presentazione e le altre circostanze dell’azione siano tali da escludere una finalità meramente personale alla detenzione (Sez. 3, Sentenza n. 46610 del 09/10/2014). Pertanto, nel caso di specie, in assenza di altri dati indicativi della destinazione allo spaccio, quali, a titolo esemplificativo, bilancino, materiale di confezionamento o denaro contante, vista la minima efficacia drogante della sostanza rinvenuta, tutti gli elementi inducono a ritenere che lo stupefacente fosse destinato ad un uso esclusivamente personale. Pertanto, deve escludersi la penale responsabilità di xxxxxx perché il fatto non sussiste”. Così, G.U.P. Tribunale di Ancona, Sentenza 332/2024 del 13/05/24. […] Read more…
07/07/2024Quando “chiudono” i Tribunali? No, d’estate i Tribunali non chiudono. Per legge i Tribunali (o meglio, le cancellerie e segreterie giudiziarie) debbono essere aperti al pubblico per “cinque ore nei giorni feriali, secondo l’orario stabilito dai capi degli uffici giudiziari” (art. 162, Legge 1196 del 1960). Anche d’estate. Tuttavia, dal 1° agosto fino al 31 agosto di ogni anno opera semplicemente la sospensione dei termini processuali. Non si tratta di una chiusura (i Tribunali sono aperti tutti i giorni, d’estate e d’inverno) ma di una “tregua” disposta dagli artt. 91 e 92 del R.D. 12/1941 e, più specificatamente, dalla legge 742/1969, così come recentemente modificate dal decreto legge 132/2014. In cosa consiste la sospensione dei termini feriali? L’art. 1 della legge 742 del 1969 dispone che “Il decorso dei termini processuali relativi alle giurisdizioni ordinarie ed a quelle amministrative e’sospeso di diritto dal 1º al 31 agosto di ciascun anno, e riprende a decorrere dalla fine del periodo di sospensione. Ove il decorso abbia inizio durante il periodo di sospensione, l’inizio stesso e’ differito alla fine di detto periodo. La stessa disposizione si applica per il termine stabilito dall’articolo 201 del codice di procedura penale. Qual è lo scopo della sospensione termini feriali? In questo modo si intende garantire un’omogenea attività agli operatori (giudici, professionisti e collaboratori degli uffici) che sospendono e riprendono contemporaneamente l’attività giudiziaria. Come funziona la sospensione dei termini feriali? I termini processuali per le cause civili, penali, amministrative che scadono tra il 1° agosto e il 31 agosto ricominciano a decorrere dal 1° settembre, calcolando come valido il periodo antecedente la sospensione. Questo significa che un termine di 30 giorni che decorre dal 25 luglio, andrà calcolato senza tenere in considerazione il mese di agosto e quindi: 6 giorni di luglio, 0 giorni di agosto, 24 giorni di settembre, totale 30 giorni. Per l’effetto, detto termine andrà a scadere il 24 settembre. Materie escluse dalla sospensione dei termini feriali. Tale sospensione non opera nel campo del diritto sostanziale (es. termini per adempiere un contratto, disdetta e quant’altro) e negli arbitrati. A titolo esemplificativo non esaustivo, va inviata subito, anche durante il periodo feriale, la raccomandata che contesti al venditore i vizi di un bene acquistato (entro 8 giorni), oppure le difformità o vizi di un immobile eseguito in appalto (entro 60 giorni, termine che diventa di un anno se riguarda crolli o difetti strutturali dell’edificio). La querela va presentata entro il termine di tre mesi dal giorno della notizia del fatto di reato e, al suddetto termine, non si applica la sospensione dei termini per il periodo feriale. Questa regola, tuttavia, presenta delle importanti eccezioni che hanno il carattere della tipicità in quanto sono espressamente previste dalla legge. Anche per tale motivo, è raccomandabile valutare attentamente caso per caso, coadiuvati dalla assistenza e consulenza di un avvocato In quali materie opera la sospensione dei termini feriali? I procedimenti soggetti alla sospensione dei termini feriali sono quelle: civili; amministrative; tributarie; rapporti di pubblico impiego di competenza del giudice amministrativo; materia elettorale; separazioni e divorzi tra coniugi (ma non le cause aventi oggetto assegno alimentare ovvero quelli aventi ad oggetto il mantenimento del coniuge economicamente più debole e dei minori, come da ordinanza n. 18044 del 06/06/2023 della Suprema Corte di Cassazione); opposizione a ingiunzione per sanzioni amministrative L. 689/81 (esclusivamente quelle davanti alla Autorità Giudiziaria); giudizi di merito, a cognizione ordinaria, successivi a procedura di urgenza; riassunzione del giudizio innanzi al giudice dichiarato competente; regolamento di competenza e di giurisdizione; impugnazione per nullità revocazione e opposizione di terzo su lodi arbitrali; liti innanzi il Tribunale acque pubbliche e la Corte dei conti; opposizione alla stima di indennità di esproprio; impugnativa di delibere condominiali; liti in tema di locazione e recesso del locatore per necessità eccetto fase sommarie delle cause di sfratto e convalida; notifiche e opposizioni a decreto ingiuntivo; non si sospendono, invece, le opposizioni all’esecuzione ed agli atti esecutivi. Quali fasi interessa la sospensione dei termini feriali? La sospensione dei termini dei termini feriali interessa le seguenti fasi: la proposizione del ricorso introduttivo; la costituzione in giudizio del ricorrente; la presentazione ed il deposito di documenti e memorie; la proposizione dell’appello. Quali cause non sono soggette a sospensione dei termini feriali? giudizi cautelari civili (sequestri, danni temuti per crolli, nuova opera, diritto d’autore, ecc); controversie in materia di lavoro; controversie su previdenza e relative impugnative di sanzioni ai datori di lavoro; ricorso straordinario al Capo dello Stato; cause per alimenti, diritto all’aggiornamento dell’assegno alimentare tra coniugi separati; procedimenti aventi ad oggetto il mantenimento del coniuge economicamente più debole e dei minori (ordinanza n. 18044 del 06/06/2023 della Suprema Corte di Cassazione); procedimenti per l’adozione di provvedimenti in materia di amministrazione di sostegno, di interdizione e di inabilitazione; procedimenti per l’adozione di ordini di protezione contro gli abusi familiari; dichiarazione e revoca di fallimenti, impugnazioni sia da parte del fallito che da parte dei creditori; cause in materia di omologazione del concordato preventivo; impugnazione della sentenza che, rigettando la domanda di omologa, dichiara il fallimento; cause di sfratto e convalida di licenza per finita locazione, per la fase di tipo sommario; controversie relative ai rapporti agrari, soggette al rito del lavoro; opposizioni all’esecuzione e opposizione agli atti esecutivi; termine di efficacia del precetto; opposizioni a decreto di ammortamento di assegni bancari; procedimento disciplinare, non giurisdizionale, nel pubblico impiego; procedimento innanzi le Autorità garanti e indipendenti; termini per la notifica ai responsabili delle violazioni al Codice stradale; termine per l’impugnativa al Prefetto di violazioni al codice della strada. In materia penale la sospensione dei termini procedurali, compresi quelli stabiliti per la fase delle indagini preliminari, non opera nei procedimenti relativi ad imputati in stato di custodia cautelare – qualora essi o i loro difensori rinunzino alla sospensione dei termini -, nei procedimenti per reati di criminalità organizzata, nei procedimenti per reati la cui prescrizione maturi durante la sospensione o nei successivi quarantacinque giorni. Per una migliore trattazione, si rimanda comunque ed ogni caso ai testi normativi sopra citati artt. 91 e 92 del R.D. 12/1941; legge 742/1969; e, più in generale, alla giurisprudenza formatasi sul punto. Va specificato, tuttavia, che non essendovi un obbligo del giudice a conformarsi al precedente (ad eccezione dell’unico caso previsto dal secondo comma dell’articolo 384 codice procedura civile (la Corte di Cassazione, «quando accoglie il ricorso, cassa la sentenza rinviando la causa ad altro giudice, il quale deve uniformarsi al principio di diritto e comunque a quanto statuito dalla Corte»), nel caso di specie, il giudice potrebbe comunque diversamente interpretare o reinterpretare, al caso di specie, la legge sopra richiamata. […] Read more…
16/03/2024“La Corte di Appello di Ancona, composta dai magistrati: dott. ### dott. ### dott.ssa ### est.  ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile in grado di appello iscritta al n. r.g. ###/### promossa da ### (C.F. ###), ### (C.F. ###), ### (C.F. ###), tutti rappresentati e difesi dall’Avv. ### APPELLANTI ### (C.F. ###), rappresentato e difeso dall’Avv. ### APPELLATO SOCIETA’ ### ### (C.F. ###), ### (C.F. ###), ### (C.F. ###), ### (C.F. ###), ### (C.F. ### F.### (C.F. ###0), ### (C.F.  ###), ### (C.F. ###), A.C.R. ### E ### (C.F. ###), ### ### (C.F. ###), ### (C.F.  ###), ### ### (C.F. ###), AVV. ### ### GIUDIZARIO/DELEGATO ALLA VENDITA ### OGGETTO: appello avverso la sentenza del Tribunale di Pesaro n. ###/#### CONCLUSIONI ### : ### E ### – sospendere e/o revocare la provvisoria esecutorietà della sentenza impugnata; – sospendere ex art. 295 c.p.c. la presente causa d’appello in attesa della definizione del giudizio di falso ex art. 221 e segg., attualmente pendente dinanzi al Tribunale di Pesaro (causa n. ####/### R.G.) IN VIA PRINCIPALE E ### – dichiarare l’estinzione del processo esecutivo n. ###/#### R.G.E. del Tribunale di Pesaro, nonché del riunito processo esecutivo n. ###/#### R.G.E, per tutte le causali esposte in atti; -annullare, revocare e/o rendere privo di effetti il verbale di aggiudicazione dell’asta del ##/##/#### in favore del ### ### nato a ### ### il ### ed ivi residente ###, c.f. ###; -accertare e dichiarare l’illegittimità, la nullità e/o l’inefficacia dei titoli dichiarati esecutivi e di tutti gli atti conseguenti, ivi compreso l’atto di cessione crediti, l’atto di precetto, il pignoramento immobiliare, la nota di trascrizione, la relazione notarile ex art. 567 c.p.c. nonché il verbale di aggiudicazione dell’asta del ##/##/#### nella proc. es n. ###/#### R.G.E. del Tribunale di Pesaro, nonché nel riunito proc. es. n. ###/#### R.G.E., nonché tutti gli atti comunque conseguenti e/o correlati e/o connessi; – ordinare al ### dell’### del ### competente, la cancellazione, con esonero di responsabilità, dell’atto di cessione di ipoteca, di € 1.200.000,00, annotata in data ### al n. #### del registro particolare ed al n. #### del registro generale, trascritto a nome del ### ### – ordinare al ### dell’### del ### competente, la cancellazione, con esonero di responsabilità, del verbale di pignoramento immobili, trascritto in data ### al n. ### del registro particolare ed al n.  ### del registro generale, trascritto a nome del ### ### nonché del verbale di aggiudicazione all’asta o del decreto di trasferimento, laddove trascritti; – ordinare al ### dell’### del ### competente, la cancellazione, con esonero di responsabilità, di ogni e qualsivoglia trascrizione e/o iscrizione di atti pregiudizievoli a danno degli attori-opponenti ed in particolare sui beni immobili analiticamente descritti nell’atto di precisazione delle conclusioni ### – trasmettere gli atti al ### della Repubblica ai sensi dell’art. 331, IV comma, c.p.p., per tutti i potenziali reati perseguibili d’ufficio ravvisandi nei fatti e documenti agli atti di causa; – disporre la sospensione dell’esecuzione nel proc. es. imm.re n. ###/#### R.G.E. del Tribunale di Pesaro, nonché nel riunito processo esecutivo n. ###/#### R.G.E, anche ai sensi dell’art. 295 c.p.c., in attesa della definizione dell’instaurando procedimento penale; – annullare, revocare e/o rendere privo di effetti il verbale di aggiudicazione dell’asta in favore del ### ### nato a ### ### il ### ed ivi residente ###, c.f. ### ### – condannare gli appellati per lite temeraria ex art. 96 c.p.c.; – condannare gli appellati alle spese di lite e processuali (se del caso, con distrazione in favore del procuratore anticipatario ex art. 93 c.p.c.).  IN VIA ISTRUTTORIA a) ordine di esibizione e/o acquisizione ### l’###ma Corte d’Appello adita, in accoglimento della domanda attorea e contrariis reiectis ordinare: l’esibizione e/o l’acquisizione ex art. 210 e segg. c.p.c. presso l’### del ### ### di ### immobiliare di ### del fascicolo concernente il pignoramento a nome ### nato a ### il ###, trascritto al n. reg. ###/#### del ###; l’acquisizione ex art. 210 e segg. c.p.c. presso la cancelleria delle ### del Tribunale di Pesaro del fascicolo cartaceo della ### es. imm.re n. ###/#### RGE, ordinandone la custodia in cassaforte al fine di evitare la dispersione, l’occultamento e/o la distruzione degli atti cartacei in originale; b) prova testimoniale ### l’###ma Corte adita, in accoglimento della domanda attorea e contrariis reiectis, ammettere la prova testimoniale sul seguente capitolo di cui chiede l’ammissione, salvo che controparte non riconosca come pacifici i relativi fatti storici, con indicazione del relativo teste e riserva di controesaminare i testi avversari e/o di integrare in base alle eccezioni: – “Vero è che presso l’### del ### ### di ### immobiliare di ### in data ### è stato trascritto al n. rep. ###/#### sui beni della ### #### ### ###, l’atto di pignoramento immobiliare che le viene esibito a nome tale ### nato a ### il ###” (teste: Dott.ssa ### cod. fiscale ###, nella qualità di ### del’### di ### ### ### di ### con sede in ### , via ### ####).  Chiedono altresì l’ammissione delle istanze istruttorie non valutate, non ammesse e/o rigettate in primo grado ed insistono sull’ammissione di tutto quanto documentato dagli appellanti in via istruttoria in primo grado.  ### respingere l’avverso appello e confermare la Sentenza ###/### Tribunale di ### con ogni consequenziale statuizione di legge.  Con vittoria di spese gravate ex art. 96 c.p.c. dal comportamento processuale di parti appellanti” FATTI DI CAUSA Con la sentenza in epigrafe indicata il Tribunale di ### ha respinto la opposizione proposta da ### ### e ### avverso la esecuzione immobiliare promossa da ### e dalla società ### ### nei confronti della società ### ### e ha condannato in solido gli opponenti a rifondere spese di lite nonché a versare, in favore di ciascuna parte costituita, la somma di €. 6.000,00 ex art. 96 III comma c.p.c.  Hanno proposto appello gli originari attori-opponenti i quali hanno censurato la sentenza impugnata articolando dieci motivi di gravame e chiedendone la integrale riforma.   Si è costituito in giudizio ### che ha contestato integralmente la impugnazione chiedendone la reiezione e domandando la conferma della sentenza impugnata.  Quindi, preso atto delle note scritte depositate ex art. 83, Dl 18/2020 conv.  dalla legge n.27 del 2020, e successive modificazioni, con cui le parti hanno precisato le rispettive conclusioni trascritte in epigrafe, la causa è stata trattenuta in decisione all’udienza del 27 ottobre 2021 assegnando i termini di cui all’art. 190 c.p.c. per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica.  RAGIONI DELLA DECISIONE 1) Con il primo motivo di appello la sentenza impugnata è stata censurata nella parte in cui il Tribunale ha respinto la eccezione di estinzione del processo esecutivo sollevata dagli attori, odierni appellanti, sostenendo la tempestività dell’atto di citazione in riassunzione depositato entro sei mesi dalla comunicazione del provvedimento del Tribunale con cui è stata rigettata una richiesta di ricusazione del giudice.  Ad avviso degli appellanti il Tribunale non ha valutato la distinzione tra ricorso e citazione, atteso che, il primo, è un atto di iniziativa processuale rivolto direttamente al giudice, mentre il secondo è diretto alla controparte né ha tenuto in considerazione le disposizioni di cui all’art. 125 disp att. c.p.c. che prevedono la indicazione, nell’atto, del provvedimento in base al quale è fatta la riassunzione (elemento nella specie non ravvisabile) e la notifica dell’atto stesso insieme al decreto di fissazione della udienza (nella specie non notificato); inoltre – hanno osservato gli appellanti – il Tribunale non ha tenuto presente che il vizio ricollegabile alla avvenuta riassunzione mediante atto di citazione è sanabile soltanto mediante la costituzione del convenuto ex art. 164 c.p.c., ma il primo giudice nulla ha disposto e deliberato in ordine alla mancata comparizione di tutte le altre parti (disponendo eventualmente la rinnovazione della domanda ex art. 165 V comma c.p.c.), rispetto alle quali non vi è la prova che le stesse siano state regolarmente convocate.  Gli appellanti hanno quindi ribadito la nullità della citazione in riassunzione e la eccezione di estinzione della prodromica procedura esecutiva n. ###/#### RGE del Tribunale di ### ed hanno chiesto di dichiarare conseguentemente anche la nullità della sentenza impugnata n. ###/###, attinente alla causa di merito introdotta in sede ### il secondo motivo di appello si lamenta che: il Giudice di primo grado non ha considerato che i convenuti opposti non hanno preso posizione sui fatti dedotti dagli opponenti – da ritenersi quindi accertati in base al principio di non contestazione – né hanno prodotto documenti o articolato istanze istruttorie dirette a contestare i fatti posti a fondamento della opposizione; gli attori opponenti invece avevano articolato istanze istruttorie (ordine di esibizione, CTU grafologica, prova testimoniale) ed il Tribunale, ritenendo la causa matura per la decisione, “ha escluso la possibilità di acquisire la fondamentale prova della falsità della procura a nome ### apposta sull’atto di pignoramento immobiliare datato ###, atto prodromico alla procedura esecutiva di cui è causa…”; il Tribunale non ha tenuto presente che i convenuti opposti non hanno operato il disconoscimento delle scritture prodotte, con la conseguenza che le stesse si hanno per riconosciute, né la perizia redatta da un grafologo sulle firme apposte sugli atti di precetto e pignoramento a firma ### né hanno prodotto una perizia grafologica finalizzata a confutare quella depositata dagli opponenti per contestare quanto dedotto (e provato) in ordine alla falsità della firma a nome ### apposta sull’atto di pignoramento.  3) Con il terzo motivo di appello gli appellanti lamentano in primo luogo la contraddittorietà della motivazione nella parte in cui il Tribunale ha escluso la legittimazione attiva che non può essere negata atteso che gli stessi sono stati già considerati parte del procedimento esercitando il legittimo diritto ad esperire ricusazione nei confronti del giudice del procedimento.  In secondo luogo, gli appellanti ritengono che il primo giudice ha valorizzato una giurisprudenza della Corte di Cassazione, risalente, affermando che: “Insegna infatti la Suprema Corte che il terzo opponente ex art 619 cpc non legittimato ad eccepire i vizi della procedura ovvero ad impugnare la validità del titolo posto a base di essa, a meno che il titolo consista in una garanzia reale che dà al creditore un diritto di sequela nei confronti del terzo acquirente opponente (vedere in questo senso Cass.civ.n. 10810/2000 e 8397/2009).  Ad avviso degli appellanti: la sentenza così motivata non tiene in considerazione la più recente giurisprudenza della Corte di Cassazione, che ha chiarito che il terzo non ha una tutela diversa o maggiore rispetto a quella accordata al debitore esecutato, ma “una tutela aggiunta o alternativa, in quanto può agire nei limiti della concreta vicenda processuale, ossia a seconda che si proceda per investire l’an della esecuzione (art. 615 c.p.c.) o si intenda accertare da parte del terzo gli errori derivanti dalla illegittimità dell’iscrizione, e quindi della trascrizione e non già del titolo giudiziale (art. 619 c.p.c.)” (Cass., sezione terza civile, sentenza 04.04.2013 n. 8205) Il principio di diritto espresso dalla Suprema Corte è difatti, osservano gli appellanti, il seguente: il terzo che in pendenza dell’esecuzione forzata e dopo la trascrizione del pignoramento abbia acquistato a titolo particolare l’immobile pignorato, fa valere l’invalidità del pignoramento come atto iniziale e fondamentale del processo esecutivo al fine di accertare che il suo acquisto, sebbene trascritto dopo la trascrizione del pignoramento, è efficace ed opponibile nei confronti del creditore pignorante e dei creditori intervenuti e vale a sottrarre all’esecuzione il bene pignorato, per cui il terzo non propone una opposizione agli atti esecutivi, ma una opposizione di terzo ex art. 619 c.p.c..  Sostengono poi che il pignoramento è frutto di un accordo simulatorio posto in essere ai loro danni dal creditore procedente/aggiudicatario, ### ### di cui ad oggi in seno alla proc. Esecutiva n. ###/#### RGE del tribunale di ### non sono nemmeno note le effettive generalità: il Giudice, tuttavia, non ha neanche tenuto conto del fatto che in tale ambito sono stati offerti n. 3 potenziali codici fiscali utilizzati dal ### ### ### ovvero 1) ###; 2) ###; 3) ### 4) Con il quarto motivo di gravame si lamenta il fatto che il giudice di primo grado non ha valutato correttamente il contenuto del contratto stipulato in data ###, posto a fondamento della opposizione alla esecuzione, dal quale si evince, secondo gli appellanti, che l’intero compendio immobiliare avrebbe dovuto essere riconsegnato ai medesimi entro e non oltre il termine essenziale del ###, né ha tenuto in considerazione la domanda giudiziale per esecuzione in forma specifica proposta dagli opponenti-odierni appellanti.  Sotto diverso profilo si censura la decisione anche nella parte in cui il Tribunale ha ritenuto che, nel caso di specie, gli opponenti “vantano nei confronti dell’esecutata non un diritto reale, ma un diritto di credito a causa ed in ragione dell’asserito inadempimento del contratto di mandato”.  Difatti, secondo gli appellanti, laddove il Giudice intenda affermare che gli appellanti vantino solo un diritto di credito ad efficacia reale, ciò non troverebbe neanche conforto nella giurisprudenza di legittimità che afferma principi di segno esattamente contrario, ovvero che il terzo possa proporre opposizione non soltanto allorquando pretenda di avere la proprietà o altro diritto reale sui beni pignorati, bensì anche allorquando si presenti come titolare di alcuni particolari diritti di credito ad efficacia reale.  5) Con il quinto motivo di appello viene dedotta la violazione di disposizioni che regolano il processo esecutivo (omesso avviso ex art. 498 cpc e omessa comunicazione ex art. 569 cpc), tali da comportare (la violazione dell’art. 569 ult. Comma c.p.c.), la nullità del processo esecutivo per collusione ex art. 2929 c.c.; inoltre il Tribunale, ad avviso degli appellanti, ha omesso di valutare gli elementi esposti come frutto di collusione tra il procedente e l’aggiudicatario (lo stesso ### che comporta la nullità del processo esecutivo, giusta deroga di cui all’art. 2929 c.c.  6) Con il sesto motivo di appello la decisione viene censurata nella parte in cui il Tribunale di ### ha affermato che “### pertanto in capo agli attori la condizione richiesta per agire ex art 619 cpc.. ### parte, la domanda giudiziale promossa dagli attori avanti il Tribunale di ### contro ### volta a fare accertare l’inadempimento del mandato ed il preteso diritto degli attori sui beni pignorati, è stata trascritta successivamente sia alle ipoteche sia ai pignoramenti eseguiti dagli altri creditori procedenti ed intervenuti. Tale circostanza non è contestata. La sentenza del Tribunale di ### anche se favorevole agli attori, non sarebbe pertanto opponibile agli altri creditori procedenti ed intervenuti.”: a tale riguardo osservano gli appellanti di non aver mai citato in giudizio ### e che quanto affermato sul punto dal primo giudice non trova riscontro nella documentazione prodotta.  7) Con il settimo motivo di impugnazione gli appellanti lamentano la omessa valutazione da parte del Tribunale delle dedotte problematiche di natura pregiudiziale riguardanti: – la mancata indicazione nella nota di trascrizione del pignoramento immobiliare del codice fiscale del creditore procedente che non risulta correttamente riportato nell’atto di pignoramento e di precetto (in cui è anche indicata una errata data di nascita), circostanze che comportano la invalidità e la inefficacia del pignoramento immobiliare trascritto presso la ### del territorio di ### – sez. distaccata di ### al n. ###/#### del ### e la invalidità della relativa trascrizione; – la falsità delle firme apposte da tale ### sull’atto di pignoramento.  8) Con l’ottavo motivo di impugnazione gli appellanti censurano la decisione nella parte in cui il Tribunale afferma che non sono ravvisabili “mancanze del ### che possano avere influito sul prezzo di vendita. Il vincolo di immodificabilità, cui fanno riferimento gli attori, era previsto nel bando, era conoscibile ed era ancora in vigore alla data della vendita. Analoghe considerazioni possono svolgersi in ordine all’occupazione del bene, che eventuali interessati potevano facilmente accertare andando a visionare l’immobile.” Lamentano che il Tribunale non ha valutato tutti gli elementi a disposizione che avrebbero dovuto indurlo a revocare la aggiudicazione considerata la iniquità del corrispettivo di aggiudicazione rispetto alle caratteristiche di pregio della struttura poiché: -non è stato considerato che il valore del bene è stato stimato in €.  ###, perché sul bene insisteva un vincolo di immodificabilità della destinazione urbanistica che tuttavia sarebbe scaduto dopo soli 23 giorni rispetto alla aggiudicazione del bene, sicchè il valore deve ritenersi sottostimato; -il Giudice ha minimizzato un fattore che, invece, ha scoraggiato potenziali aggiudicatari dalla partecipazione all’asta: sull’avviso di vendita che ha dato luogo all’aggiudicazione, pubblicato dal delegato Avv. ### si legge che: “Il G.E., con Provvedimento del ### a seguito ### presentata dal legale del creditore procedente, ha nominato custode dei beni pignorati l’Avv. ###….. In occasione del primo accesso e visita degli immobili, la sottoscritta ha rilevato che gli stessi non sono più occupati dalla proprietà né dalla ditta affittuaria.”. Tale condizione, tuttavia, non è stata indicata sugli avvisi successivi al detto provvedimento di nomina del G.E. (e dunque al sopralluogo), pubblicati quasi un anno dopo, sui quali, invece, il medesimo delegato ha indicato che: “i beni pignorati risultano occupati dalla proprietà e dalla ditta affittuaria dei beni e titolare dell’attività agrituristica”.  Tale condizione ha certamente scoraggiato i potenziali acquirenti, in quanto va evidente che, nelle more della paventata occupazione della struttura ricettiva, costoro abbiano ritenuto sconveniente l’affare; -il Tribunale non ha considerato un ulteriore fattore, che è risultato altresì determinante nello scoraggiare i potenziali aggiudicatari dalla partecipazione all’asta, consistente nel fatto che sull’Avviso di vendita all’asta notificato alle parti si dava atto che sui beni gravavano alcune trascrizioni pregiudizievoli (due sequestri conservativi ed una domanda giudiziale) indicate come “formalità non sicuramente cancellabili d’ufficio”, mentre sull’Avviso di vendita relativo all’asta del ### (quello che ha condotto all’aggiudicazione dell’immobile in favore del ### ###, la dicitura “formalità non sicuramente cancellabili d’ufficio” risulta omessa: secondo gli appellanti “non è dato sapere quando sia stata cancellata tale dicitura, ma è certo che i potenziali acquirenti abbiano ragionevolmente ritenuto tale condizione (l’impossibilità di cancellare la domanda giudiziale) scoraggiante per un eventuale partecipazione alla gara, avvantaggiandosi di ciò l’aggiudicatario (ad un prezzo iniquo)”.  9) Con il nono motivo di impugnazione gli appellanti lamentano la contraddittorietà ed illogicità della sentenza nella parte in cui il Tribunale ha rigettato ed accolto al tempo stesso la domanda risarcitoria avanzata ai sensi dell’art. 96 c.p.c. dagli appellati non contumaci: il Tribunale ha infatti affermato che dagli atti del processo non emergono elementi obbiettivi dai quali desumere la concreta esistenza del danno ex art. 96 cpc, sicché nulla può essere liquidato a tale titolo, neppure ricorrendo a criteri equitativi e, contestualmente, ha condannato gli opponenti-appellanti ai sensi dell’art. 96, comma 3, c.p.c., al pagamento in favore dei convenuti costituiti di una somma indicata in motivazione in €. 4.000,00 e in dispositivo in €. 6.000,00; né dal contenuto della sentenza può evincersi che il Tribunale abbia inteso respingere la domanda ex art. 96 c.p.c. articolata dagli opponenti, non potendo chiedere un risarcimento soggetti che (secondo il ragionamento del giudice) non sono legittimati a proporre opposizione.  10) Con l’ultimo motivo di gravame gli appellanti censurano in capo di condanna al pagamento delle spese processuali liquidate in €. 15.000,00 in favore di ciascuna parte costituita lamentando l’importo sproporzionato rispetto al valore della controversia ed alla attività svolta; chiedono la condanna delle controparti al pagamento delle spese di lite oppure, in subordine, la compensazione, in caso di rigetto dell’appello o di accoglimento parziale della domanda.  11) Ritiene il Collegio di esaminare, anzitutto, il quarto motivo di gravame diretto a censurare la decisione nella parte in cui il Tribunale ha escluso le condizioni richieste per agire ex art. 619 c.p.c., basato su una non corretta valutazione del contratto di mandato posto a fondamento della opposizione proposta dagli odierni appellanti e sul fatto che il giudice di primo grado non ha tenuto in considerazione la “domanda giudiziale in forma specifica” (avente ad oggetto quel contratto).  11.1) A tale riguardo si osserva, preliminarmente, che gli odierni appellanti non sono creditori procedenti né intervenuti nella procedura esecutiva promossa contro la società ### ###, e quindi, in quanto tali, possono eventualmente proporre la opposizione di terzo ex art. 619 c.p.c.: tale opposizione, infatti, è volta a sottrarre agli sviluppi dell’esecuzione uno o più beni che ne sono oggetto, mediante un accertamento, tendenzialmente incidentale e non idoneo al giudicato, della sussistenza del diritto reale sul bene stesso, vantato dall’opponente.  11.2) Invero, in base alla citata disposizione, la legittimazione compete al titolare di “proprietà o altro diritto reale sui beni pignorati” e, come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, anche a chi si afferma titolare di situazioni giuridiche soggettive in conflitto con il diritto vantato dai creditori e asseritamente prevalenti su questo (Cass. civile sez. III, n.27888/2017; Cass., Sez. 3, Sentenza n. 17876 del 31/08/2011, citata anche dagli appellanti).  E’ stato altresì precisato (Cass. civ. n. 26537/2017) che “### di terzo ex art. 619 c.p.c., può essere proposta: ### sempre e comunque, da chi vanti un diritto reale sulla cosa pignorata (così la lettera dell’art. 619 c.p.c., con una indicazione che per giurisprudenza pacifica ha valore esemplificativo e non tassativo: in tal senso si veda già ### 3, Sentenza n. 3896 del 05/12/1968, in seguito sempre conforme); ### chi vanti un diritto di credito nei confronti del debitore esecutato, invece, può proporre opposizione di terzo solo a due condizioni: (b1) che il diritto di credito del terzo opponente sia prevalente rispetto a quello del creditore procedente (tra le altre, in tal senso, si vedano ### 3, Sentenza n. 17876 del 31/08/2011 e ### 3, Sentenza n. 2828 del 28/11/1964); (b2) che l’opponente vanti un diritto di credito sulla cosa pignorata: un diritto, cioè, del quale la cosa pignorata formi l’oggetto diretto (ex multis, in tal senso, ### 1, Sentenza n. 5789 del 04/11/1982; ### 3, Sentenza n. 3649 del 15/11/1974; ### 3, Sentenza n. 3896 del 05/12/1968)” 11.3) Gli appellanti non risultano titolari di alcun diritto nel senso sopra indicato.  Essi infatti hanno posto a fondamento delle domande un contratto sottoscritto il ### con cui i medesimi hanno conferito alla società ### ### un mandato, senza rappresentanza, ad acquistare l’”azienda ### e connesso impianto agrituristico denominato ‘### sito nel Comune di ### località ### …..comprensivo di beni mobili ed immobili, anche da ristrutturare e/o risanare”: nel contratto i beni non risultano specificamente individuati mediante la descrizione catastale, ma tra le parti è pacifico che si tratta dei medesimi immobili (terreno con sovrastante fabbricato in cui si trova la tenuta agrituristica denominata “###”) sottoposti a pignoramento immobiliare in favore di ### contro la ### ### con sede a ### trascritto ad ### in data ### al n. ###, con cui è iniziata la procedura esecutiva oggetto del giudizio di opposizione di terzo (tali circostanze, dedotte dagli opponenti nel giudizio di primo grado e ribadite in questa sede ### hanno mai costituito oggetto di contestazione è possono quindi ritenersi accertate).  Dal contenuto del citato contratto si evince che gli opponenti avevano conferito alla società ### ### il mandato ad acquistare il complesso ### di proprietà della ### ### (estranea al contratto) ed avevano concordato con la mandataria il termine “essenziale” del ##/##/#### per la conclusione del mandato (art. 2h e art. 3) nonché previsto gli effetti dell’avvenuto perfezionamento dell‘acquisto o del mancato perfezionamento entro quel termine (art. 3).  I contraenti infatti avevano pattuito che: “l’incarico commissionato dovrà essere inderogabilmente adempiuto e concluso entro il termine essenziale del ###, termine entro il quale la mandataria e/o fiduciari che avranno compiuto le operazioni dovranno fornire rendiconto finale delle attività compiute e consentire ai mandanti di acquisire a titolo definitivo per sé o per altri i diritti di proprietà sull’azienda e sul connesso impianto agrituristico (compreso beni mobili, immobili e quote societarie), nonché la voltura di tutte le licenze ed autorizzazioni amministrative….” (art.  2h); “…il superamento del termine essenziale comporterà il verificarsi delle seguenti condizioni: 1. qualora si sia già perfezionato l’acquisto dell’azienda connesso impianto agrituristico….. senza che la mandataria e/o suoi fiduciari abbiano provveduto a fornire il rendiconto finale ai mandanti con contestuale consegna costoro di tutti i beni mobili ed immobili acquistati per loro conto…. i mandanti subentreranno di diritto nella proprietà dei beni medesimi….”: 2. qualora non si sia ancora perfezionato l’acquisto dell’azienda connesso impianto agrituristico…. il mandato si intenderà revocato e nulla sarà dovuto alla mandataria. In tal caso la mandataria e/o suoi fiduciari dovranno immediatamente rimborsare ai mandanti tutte le somme percepite per il conseguimento dello scopo contrattuale oltre interessi e rivalutazione, fatto salvo il riconoscimento dei danni patiti in ragione ed a causa di comportamenti colposi o dolosi attuati nell’ambito del mandato da qualsivoglia soggetto riconducibile alla mandataria…” (art.3).  11.4) Le clausole sopra indicate evidenziano chiaramente che gli odierni opponenti, proprio perché hanno conferito un mandato ad acquistare, non sono titolari di diritti di proprietà sui beni pignorati né di altri diritti reali che non risultano in alcun modo evidenziati nel contratto.  Né d’altra parte risulta che al mandato sia stata data completa esecuzione in modo tale da far acquistare la proprietà dei beni nel termine “essenziale” del ##/##/####: tale circostanza non è stata prospettata dagli appellanti i quali, anzi, hanno dedotto di aver proposto in forza del predetto contratto stipulato il ###, una domanda giudiziale “per esecuzione in forma specifica” – trascritta ad ### il ### al n. ####, e quindi in data successiva al pignoramento immobiliare – confermando così di non aver acquistato la proprietà del complesso aziendale.  In considerazione delle circostanze delineate si ritiene che gli appellanti possano far eventualmente valere soltanto le azioni connesse al contratto di mandato che tuttavia è un titolo inidoneo a fondare una valida opposizione di terzo nei confronti dei creditori e del debitore esecutato (la ### ###), estranei a quel contratto, in quanto determina l’insorgenza di sole obbligazioni in capo ai contraenti (mandanti e mandataria) e non produce alcun effetto di tipo reale.  11.5) ### parte la giurisprudenza di legittimità invocata dagli appellanti non appare decisiva al fine di pervenire ad una diversa conclusione poiché riguarda fattispecie diverse da quella in esame.  11.5.a) Infatti vero è che “Ai sensi dell’art. 619 c.p.c., può essere proposta opposizione soltanto dal terzo che pretenda di avere la proprietà o altro diritto reale sui beni pignorati, oppure che si presenti come titolare di alcuni particolari diritti di credito ad efficacia reale, suscettibili di soddisfarsi sulla cosa oggetto dell’esecuzione, e dunque prevalenti sulla pretesa del creditore procedente (Cass. Civ. n. 17876/2011); tuttavia con tale decisione è stato evidenziato che la legittimazione è configurabile in capo al titolare di taluni particolari diritti di credito relativamente alla cosa oggetto dell’esecuzione con riferimento non ad un generico diritto di credito, ma a quel diritto che sia suscettibile di soddisfarsi sulla cosa oggetto dell’esecuzione, ovvero a quel diritto che abbia efficacia reale; in relazione alla fattispecie esaminata (si discuteva della legittimazione all’opposizione all’esecuzione di terzo di un soggetto mero affittuario dei beni oggetto di esecuzione mobiliare, non titolare, pertanto, di un diritto di proprietà o altro diritto reale) è stato affermato che “la prevalenza del diritto di credito sulla pretesa del creditore procedente non può riconoscersi alla locazione ed al comodato, sicché questi ultimi non sono titoli giuridicamente idonei a legittimare il diritto allegato dal terzo” .  Ciò posto si osserva che nella fattispecie in esame non è configurabile un diritto di credito ad efficacia reale nel senso sopra delineato atteso che , nel caso concreto, un diritto di credito è strettamente ricollegabile al mancato adempimento del contratto di mandato al quale è estraneo il debitore esecutato e quindi il titolare dell’eventuale diritto di credito, che trae origine da quel contratto, non potrà agire nei confronti del proprietario del bene (debitore esecutato) al fine di soddisfarsi sul bene ### oggetto del contratto medesimo.  11.5.b) Né appare pertinente la giurisprudenza richiamata secondo cui è ammissibile l’azione che il terzo estraneo alla procedura esecutiva immobiliare abbia dispiegato, anche in tempo successivo all’aggiudicazione od al decreto di trasferimento, per fare prevalere il proprio diritto reale immobiliare nei confronti del debitore originario, del creditore procedente e degli eventuali aggiudicatari del bene oggetto del suo diritto (Cassazione civ. sez. III del 13 novembre 2012 n. 19761, relativa ad una fattispecie in cui il terzo aveva rivendicato la proprietà dei beni oggetto di una domanda proposta ai sensi dell’art. 2932 c.c. trascritta anteriormente alla trascrizione del pignoramento, situazione – quindi – diversa da quella di cui si discute in questa sede): infatti se è vero che la predetta azione, benché non più idonea ad incidere utilmente sul corso della procedura esecutiva, si atteggia come rivendicazione, con efficacia di giudicato, del bene immobile pignorato ed aggiudicato nei confronti del debitore o degli eventuali aggiudicatari, è pur vero che essa presuppone la titolarità di un diritto immobiliare sul bene che, nella specie, non è ravvisabile in capo agli odierni appellanti per le considerazioni in precedenza svolte.  11.6.) Esclusa, sulla base del contratto di mandato, la titolarità di una situazione giuridica inquadrabile nella fattispecie di cui all’art. 619 c.p.c., va valutata la questione concernente la domanda per “esecuzione in forma specifica” proposta dai sigg.ri ### ### e ### innanzi al Tribunale di ### nei confronti, tra gli altri, della ### ###  11.6.a) A tale riguardo si osserva, in primo luogo, che, come dedotto e documentato dagli attori odierni appellanti, il giudizio risulta definito in primo grado con la sentenza n. 600/2016 con cui il Tribunale, come si evince dalla motivazione: – ha evidenziato che la domanda formulata dagli attori nei punti da ### a ### – compresa quindi, per ciò che rileva in questa sede, quella diretta al trasferimento ai mandanti della proprietà dei beni mobili ed immobili intestati alla società ### ### – e, in via subordinata, nelle conclusioni rassegnate all’udienza di precisazione delle conclusioni, avrebbe implicato una pronuncia ai sensi dell’art. 2932 c.c. che presuppone la “validità ed efficacia del contratto ed è pertanto incompatibile con la volontà degli attori di vedersi sciolti dal vincolo contrattuale, come richiesto in via principale”; – ha ritenuto meritevole di accoglimento, in parte, la domanda di risarcimento del danno nei confronti della mandataria ### ###; – ha respinto, sotto diversi profili, la domanda risarcitoria perché “collegata alla pronuncia di trasferimento dei beni mobili ed immobili a favore degli attori che non può essere accolta”.  Il Tribunale di ### ha quindi condannato, tra gli altri, la ### ###, pagamento della somma liquidata e ha rigettato “le altre domande” (così in dispositivo).  Ciò considerato si ritiene – a differenza di quanto rilevato dagli appellanti (secondo cui il giudice, avrebbe accolto “solo parzialmente la domanda attorea, nulla disponendo in ordine alla domanda giudiziale trascritta per esecuzione in forma specifica”) – che il Tribunale, con la citata sentenza (poi impugnata dagli odierni appellanti, in base a quanto degli stessi dedotto), si è pronunciato anche in ordine alla domanda di trasferimento dei beni, ritenendola incompatibile con la domanda di risoluzione del contratto di mandato e quindi rigettandola.  11.6.b) Ciò premesso va rilevato che gli stessi appellanti hanno evidenziato che: il pignoramento immobiliare (dal quale ha tratto origine la esecuzione immobiliare oggetto del giudizio di opposizione) è stato trascritto ad ### il ### al n. ###; la domanda giudiziale “per esecuzione in forma specifica” proposta in base al contratto di mandato è stata trascritta ad ### il ### al n. ####.  Tali circostanze sono state dedotte dagli opponenti innanzi al Tribunale (atto introduttivo pag. 3), ribadite dagli stessi nel presente grado di giudizio (pag. 4 dell’atto di appello) e non hanno costituito oggetto di contestazione sicché devono ritenersi accertate.  Pertanto in base all’art. 2915 II comma c.c. l’eventuale accoglimento della predetta domanda giudiziale non potrebbe produrre effetti in pregiudizio dei creditori – procedente ed intervenuti – perché trascritta successivamente al pignoramento.  Per le considerazioni svolte si ritiene che le doglianze articolate con il quarto motivo di gravame non siano fondate.  12.) Le argomentazioni che precedono con riferimento alla domanda giudiziale indicata dagli appellanti, assorbono e rendono superfluo l’esame del sesto motivo di gravame con cui gli stessi hanno censurato la decisione nella parte in cui il Tribunale ha valorizzato una domanda promossa innanzi al Tribunale di ### contro il ### trascritta successivamente al pignoramento, in realtà mai proposta.  13.) Esclusa quindi la attuale titolarità di un diritto di proprietà o altro diritto reale in capo agli opponenti, per le ragioni sopra illustrate, si procede ad esaminare gli altri motivi di gravame (dal primo al terzo, quinto, settimo e ottavo) con cui, censurando la decisione del Tribunale, sono stati riproposti profili di invalidità ed inefficacia dell’atto di pignoramento nonché vizi della procedura esecutiva e la estinzione della stessa.  13.1) A tale riguardo gli appellanti hanno contestato la decisione impugnata nella parte in cui il Tribunale ha escluso la legittimazione attiva rilevando che il giudice di primo grado non ha tenuto in considerazione il principio affermato dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. civ. n. 8205/2013, richiamata nell’atto di appello) secondo cui il terzo che, in pendenza dell’esecuzione forzata e dopo la trascrizione del pignoramento, abbia acquistato a titolo particolare l’immobile pignorato, fa valere l’invalidità del pignoramento come atto iniziale e fondamentale del processo esecutivo al fine di accertare che il suo acquisto, sebbene trascritto dopo la trascrizione del pignoramento, è efficace ed opponibile nei confronti del creditore pignorante e dei creditori intervenuti e vale a sottrarre all’esecuzione il bene pignorato, non propone una opposizione agli atti esecutivi, ma una opposizione di terzo ex art. 619 c.p.c., come tale quindi ammissibile.  13.2) Tale principio si colloca nel solco della giurisprudenza di legittimità (tra le altre Cass. n. 5986/2009) in base alla quale “Il terzo, il quale, in pendenza dell’esecuzione forzata e dopo la trascrizione del pignoramento, abbia acquistato a titolo particolare il bene pignorato, soggiace, se non contesta la validità del pignoramento, alla norma dell’art. 2913 c.c., la quale nega ogni protezione agli interessi di esso acquirente sol che si trovino in conflitto con quelli dei creditori presenti nel processo esecutivo: cosicché egli non è legittimato a proporre opposizione agli atti esecutivi. Ove, invece, eccependo la nullità del pignoramento, negando conseguentemente l’applicabilità nei suoi confronti della norma anzidetta e sostenendo l’efficacia del suo acquisto nei confronti dei creditori, egli chieda la separazione del suo bene, neppure in tal caso egli, come terzo opponente ai sensi dell’art. 619 c.p.c., può dedurre a fondamento della sua opposizione i vizi della procedura esecutiva: egli non ha, infatti, altro interesse fuorché quello di tutelare il suo diritto reale sul bene assoggettato all’esecuzione, …….Dal che consegue che in nessun caso il terzo acquirente del bene pignorato può essere legittimato a proporre opposizione agli atti esecutivi, e che, ove egli abbia proposto tale opposizione, questa è inammissibile (Cass. 24.10.1975, n. 3532; Cass. 14.4.1993, n. 4409; Cass. 26.7.2004, n. 14003; Cass. 6.6.2008, n. 15030)”.  La Suprema Corte ha altresì precisato che nel caso di acquisto di un immobile successivamente alla trascrizione sullo stesso del pignoramento – quindi con atto inopponibile ai creditori pignoranti ed intervenuti – l’acquirente non può intervenire neppure in via adesiva nell’espropriazione forzata, né è legittimato a proporre opposizione agli atti esecutivi, ma è legittimato soltanto a proporre opposizione di terzo ex art. 619 c.p.c., allo scopo di far valere l’eventuale inesistenza o la nullità della trascrizione, per sottrarre il bene all’espropriazione…” (Cass. civile sez. III, 28/06/2010, n.15400).  Più in generale, la Corte di legittimità ha precisato che il terzo opponente ex art. 619 c.p.c., non essendo parte del processo esecutivo, è legittimato a far valere il proprio diritto reale sul bene oggetto dell’esecuzione forzata, ma non ad eccepire i vizi della relativa procedura ovvero ad impugnare la validità del titolo posto a base di essa (cfr. Cass. 12 agosto 2000, n. 10810).  13.3) Alla luce di tali principi si ritiene che i terzi opponenti non possano -in ogni caso – far valere vizi della procedura esecutiva, quali quelli riproposti in questa sede con i motivi primo, quinto ed ottavo che riguardano la violazione di specifiche disposizioni che regolano il processo esecutivo e la legittimità o la nullità di atti dell’esecuzione (estinzione del processo esecutivo in seguito alla asserita irrituale e non tempestiva riassunzione dopo la decisione sulla richiesta di ricusazione, primo motivo; omessa rinnovazione dell’avviso ex art. 498 c.p.c. e inosservanza delle disposizioni all’art. 569 c.p.c ult. comma, tale quest’ultima da comportare la nullità del processo esecutivo per collusione ex art. 2929 c.c., quinto motivo; iniquità del prezzo di aggiudicazione, ottavo motivo).  L”inammissibilità, nel presente giudizio, deriva dal fatto che dette doglianze investono questioni che riguardano i rapporti tra i creditori – procedenti ed intervenuti – e la parte debitrice esecutata, e dal correlativo consolidato orientamento di cui si è detto (v. giurisprudenza sopra richiamata) secondo cui il terzo opponente, non essendo parte del procedimento esecutivo, è legittimato a far valere il proprio diritto reale sul bene, oggetto dell’esecuzione forzata, ma non ad eccepire i vizi della relativa procedura ovvero ad impugnare la validità del titolo, posto a base di essa.  Per le considerazioni svolte si ritiene che i motivi primo, quinto ed ottavo debbanno essere respinti.  14.1) Passando ad esaminare gli altri motivi (secondo, terzo e settimo) si osserva che le doglianze sono dirette a far valere la invalidità e la inefficacia del pignoramento, come atto inziale del processo esecutivo, in considerazione sia della asserita falsità della firma posta in calce alla procura rilasciata a margine dell’atto di pignoramento immobiliare sia di alcuni errori relativi alla individuazione del creditore procedente (terzo e settimo motivo); gli appellanti hanno inoltre lamentato la mancata ammissione dei mezzi istruttori (che ha escluso la possibilità di acquisire la prova della falsità della procura apposta sull’atto di pignoramento) ed evidenziato la omessa contestazione da parte dei convenuti sia dei fatti dedotti dagli opponenti sia dei documenti prodotti che non sono stati disconosciuti situazione che avrebbe dovuto indurre il primo giudice ad accogliere la domanda degli opponenti sulla base della valutazione delle prove offerte dagli stessi e del comportamento tenuto dai convenuti (secondo motivo).  14.2) I motivi in esame – che, per la connessione delle problematiche trattate, possono essere trattati congiuntamente – non sono meritevoli di accoglimento.  Infatti anche a voler ammettere che gli attuali appellanti siano legittimati ed abbiano un interesse giuridicamente rilevante all’accertamento della legittimità o meno del pignoramento, perché dalla dedotta invalidità dell’atto inziale del processo esecutivo dipende la liberazione dei beni pignorati, oggetto della domanda giudiziale di esecuzione in forma specifica proposta innanzi al Tribunale di ### di cui si è parlato in precedenza, le doglianze non sono fondate.  14.2.a) A tale riguardo va anzitutto osservato che, in questa sede, è precluso l’esame delle questioni concernenti la dedotta falsità della firma (a nome di ### apposta in calce alla procura conferita a margine dell’atto di pignoramento immobiliare atteso che, come si evince dagli atti del procedimento che si è svolto innanzi al Tribunale: gli opponenti, sul punto, hanno proposto querela di falso nel corso del giudizio di primo grado con atto depositato il ###; il giudice ha disposto la separazione della domanda avente ad oggetto la querela di falso, ha fissato una udienza per gli adempimenti previsti dagli artt.  222 e segg. c.p.c. e ha emesso separata sentenza in ordine alla domanda principale degli opponenti (v. decreto depositato il ###), impugnata in questa sede.  Pertanto, le questioni evidenziate in ordine alla falsità della firma, apparentemente ricollegabile a ### sono state trattate separatamente nel giudizio di primo grado e sono quindi necessariamente oggetto di una separata sentenza, diversa da quella impugnata, come del resto esplicitamente affermato dal Tribunale di ### nella decisione appellata (in cui si dà atto che “sulla querela di falso si deciderà separatamente ex art. 279 comma 2 n. 5cpc”): di conseguenza le doglianze articolate dagli appellanti, concernenti tali questioni, sono in questa sede ### avendo dette problematiche costituito oggetto della sentenza impugnata.  14.2.b) ### parte si ritiene di non dover sospendere il presente giudizio in attesa della definizione sulla querela di falso.  Invero la giurisprudenza di legittimità ha affermato il principio in base al quale l’atto di pignoramento a norma del combinato disposto di cui agli artt.  170 e 125 c.p.c. deve essere sottoscritto dal creditore pignorante (se sta in giudizio personalmente) o dal suo difensore, munito di procura la quale, una volta rilasciata, ha validità per tutto il procedimento esecutivo (Cass. n.  1687/2012); è stato altresì affermato che è valido l’atto di pignoramento immobiliare sottoscritto dal difensore al quale il creditore abbia conferito procura alle liti, oltre che nell’atto di pignoramento, nell’atto di precetto (Cass. n. 6282/2012).  Da tali principi deriva che è valido l’atto di pignoramento immobiliare sottoscritto dal difensore al quale il creditore abbia conferito procura alla lite nell’atto di precetto: e del resto ai sensi dell’art. 83 c.p.c. la procura può essere conferita, tra l’altro, anche a margine del precetto.  Ciò premesso si osserva che nella fattispecie in esame (come si evince dalla copia – non integrale – dell’atto di precetto e dell’atto di pignoramento, allegata dagli opponenti alla querela di falso e riprodotta in questa sede) ### ha rilasciato a margine dell’atto di precetto la procura ai fini della rappresentanza e difesa “del presente procedimento e nel giudizio di eventuale esecuzione…” all’avv. ### il quale ha poi sottoscritto l’atto di pignoramento immobiliare.  Pertanto l’asserita falsità della firma posta in calce alla procura rilasciata a margine dell’atto di pignoramento non è tale da comportare la invalidità di tale atto atteso che questo risulta validamente sottoscritto dal predetto legale al quale era stata già rilasciata la procura a margine dell’atto di precetto (prodromico al pignoramento) anche per il processo esecutivo, procura questa pacificamente sottoscritta dal ### la cui firma non è stata oggetto di contestazione ed anzi è stata indicata quale elemento di comparazione nell’atto di querela.  14.3) In merito agli ulteriori rilievi si osserva che gli appellanti hanno evidenziato: – che sull’atto di pignoramento immobiliare trascritto presso l’### del territorio di ### (in data ### – n. Part. ###, n. Gen. ###), risulta indicato “### ### nato a ### il ###” (il cui codice fiscale è ###), mentre il creditore procedente come costituito nel presente giudizio è il “### ### nato a ### il ###, c.f. ###”; – la omessa indicazione del codice fiscale del creditore procedente ### nell’atto di precetto e di pignoramento in cui è indicata quale data di nascita del medesimo il ###.  A tale riguardo va rilevato che – come affermato dalla Suprema Corte (Cass. civ. n. 13543/2018) – “a norma dell’art. 2665 c.c., non ogni omissione od inesattezza nella nota di trascrizione determina l’invalidità della trascrizione stessa, ma solo quelle che ingenerano incertezze sulle persone, sul bene e sulla natura giuridica dell’atto”.  Alla luce di tale principio si ritiene che gli errori evidenziati non siano tali influire negativamente sulla validità dell’atto inziale della esecuzione e da determinare la inopponibilità del pignoramento nei confronti dei terzi, odierni appellanti, in considerazione del fatto che: – in tutti gli atti risulta indicato quale creditore procedente “### ###”, nato a “###” nel “###” ; – le generalità complete e corrette del creditore – “### nato a ### il ###, c.f. ###”, coincidenti con quelle dell’appellato risultanti dalla comparsa di costituzione e risposta richiamata nell’atto di appello – sono riportate nell’atto di cessione del credito (atto ### di ### rep. N. ###/###, registrato a ### il ###, al n. ### serie ##, munito di formula esecutiva) posto a fondamento della azione esecutiva, richiamato sia nell’atto di precetto sia nell’atto di pignoramento immobiliare.  In tale contesto la errata indicazione della data di nascita – 20.9 anziché 24.9 – e conseguentemente (nella nota di trascrizione dell’atto di pignoramento) del codice fiscale e la omessa indicazione del codice fiscale nell’atto di precetto e di pignoramento non creano incertezza in ordine alla individuazione del creditore procedente atteso che la corrispondenza tra i dati riportati in tutti gli atti contestati (nome, cognome, luogo, mese ed anno di nascita) e quelli indicati nel citato titolo esecutivo inducono ritenere che la persona che ha trascritto il pignoramento immobiliare coincide con il creditore ### indicato nel contratto di cessione del credito posto a fondamento della azione esecutiva e va quindi individuato in ### nato a ### il ###, c.f. ### (costituito nel giudizio di opposizione).  Per le considerazioni svolte i motivi in esame vanno respinti, rimanendo assorbita ogni ulteriore questione prospettata con tali motivi.  15.) La doglianze articolate dirette a censurare il capo della sentenza di condanna pronunciata dal Tribunale ai sensi dell’art. 96 III comma c.p.c. sono solo parzialmente fondate, nei limiti in cui è rilevato il contrasto tra la somma liquidata in motivazione (€. 4.000,00) e quella poi indicata in dispositivo (6.000,00).  15.1.a) Invero, in primo luogo, si osserva che non è configurabile la asserita contraddittorietà della motivazione ricollegabile, secondo gli appellanti, al fatto che il Tribunale, dopo aver respinto la domanda ex art. 96 c.p.c., ha condannato gli opponenti al versamento della somma ex art. 96 III comma c.p.c.  A tale riguardo va rilevato che – come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità – ”….la condanna ex art. 96 c.p.c., comma 3, applicabile d’ufficio in tutti i casi di soccombenza, configura una sanzione di carattere pubblicistico, autonoma ed indipendente rispetto alle ipotesi di responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., commi 1 e 2, e con queste cumulabile, volta al contenimento dell’abuso dello strumento processuale; la sua applicazione, pertanto, non richiede quale elemento costitutivo della fattispecie, il riscontro dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, bensì di una condotta oggettivamente valutabile alla stregua di “abuso del processo”, quale l’aver agito o resistito pretestuosamente (Cass. 27623/2017) e cioè nell’evidenza di non poter vantare alcuna plausibile ragione…” (Cass. civ. Sez. VI, 18/11/2019, n. 29812).  Da tali principi si evince che i presupposti per l’applicazione dell’art. 96 I e II comma c.p.c. sono diversi da quelli che giustificano la applicazione, anche d’ufficio, del III comma della disposizione citata che prevede una “sanzione di carattere pubblicistico”, priva di natura risarcitoria, nei confronti della parte soccombente che abbia fatto “abuso” dello strumento processuale.  15.1.b) In considerazione di tali differenze non sussiste la dedotta contraddittorietà nella decisione del Tribunale che, dopo aver respinto la domanda avanzata ex art. 96 c.p.c. , in mancanza di “elementi obiettivi dai quali desumere la concreta esistenza del danno”, ha condannato gli attori soccombenti, tenuti al pagamento delle spese processuali, al versamento della somma di €. 4.000,00 ai sensi dell’art. 96 III comma c.p.c. “stante le ragioni del rigetto e tenuto conto che il difetto di legittimazione era già stato evidenziato dal G.E. e dal Tribunale in sede ###relazione alla maggior parte delle eccezioni sollevate dagli attori si era già espresso il Tribunale” con una precedente sentenza.  Ciò posto e tenuto presente che non è stata specificamente contestata detta motivazione in base alla quale il Tribunale ha ravvisato, nel caso di specie, un “abuso” dello strumento processuale, si ritiene che la condanna ai sensi dell’art. 96 III comma c.p.c. debba essere confermata.  15.2) In ordine alla entità della somma liquidata, invece, le doglianze sono meritevoli di accoglimento, atteso che il predetto importo di €. 4.000,00 risulta congruo e non vi sono ragioni che giustificano la liquidazione della diversa e maggior somma di €. 6.000,00 indicata (per errore materiale) in dispositivo: in tali limiti in accoglimento del gravame, va parzialmente riformata la sentenza impugnata.  16.) In considerazione dell’esito del giudizio, caratterizzato dalla sostanziale soccombenza degli appellanti, e dei limiti dell’accoglimento dell’appello (su un unico aspetto, marginale, rispetto all’oggetto della controversia), si ritiene di porre a carico degli stessi le spese del presente grado del procedimento, liquidate come in dispositivo, in base ai parametri di cui al D.M. n. 55 del 2014, tenendo conto del valore della controversia, della natura delle questioni trattate e dell’attività difensiva svolta.  17) Con riguardo alla domanda di condanna, ex art. 96 c.p.c., avanzata dall’appellato, si ritiene che non siano ravvisabili i presupposti per la liquidazione del danno, neppure equitativamente, in mancanza di elementi idonei ad identificare concretamente l’esistenza del pregiudizio che la parte abbia subito per essere stata costretta a contrastare una l’iniziativa avversaria (Cass. 4.11.2005 nr. 21393).  P.Q.M.  La Corte di Appello di Ancona, respinta ogni contraria e diversa istanza ed eccezione, in parziale accoglimento dell’appello proposto da ### ### e ### avverso la sentenza del Tribunale di ### n. ###/####, determina la somma dovuta ex art. 96 III comma c.p.c.  in €. 4.000,00 in favore di ciascuna parte costituita; respinge per il resto l’appello confermando la sentenza impugnata.  ### gli appellanti a rifondere alla parte appellata le spese del presente grado di giudizio che si liquidano in €. 2.100,00 per la fase di studio della controversia, €. 1.250,00 per la fase introduttiva del giudizio ed €. 3.500,00 per la fase decisionale, oltre rimborso spese generali al 15%, IVA e CAP nella misura di legge ### deciso in Ancona il 15 giugno 2022.”. Giudicu/firmatari: Federico Guido, Marchetti Neda, Bora Anna. Così, Corte di Appello di Ancona, Sentenza n. 1309/2022 del 14-10-2022. […] Read more…
28/10/2023SENTENZA N. 194 ANNO 2023 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Silvana SCIARRA; Giudici : Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 186, comma 2-bis, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), promosso dalla Corte d’appello di Milano, sezione prima penale, nel procedimento penale a carico di S. R., con ordinanza del 14 luglio 2022, iscritta al n. 96 del registro ordinanze 2022 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 38, prima serie speciale, dell’anno 2022. Visti l’atto di costituzione di S. R., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell’udienza pubblica del 19 settembre 2023 il Giudice relatore Giovanni Amoroso; uditi gli avvocati Eliana Zecca e Flavio Giacomo Salvo Sinatra per S. R. e l’avvocato dello Stato Salvatore Faraci per il Presidente del Consiglio dei ministri; deliberato nella camera di consiglio del 19 settembre 2023. Ritenuto in fatto 1.– Con ordinanza del 14 luglio 2022 (reg. ord. n. 96 del 2022), la Corte d’appello di Milano, sezione prima penale, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13, 25, secondo comma, e 27, primo e terzo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 186, comma 2-bis, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), come da ultimo modificato dall’art. 33, comma 1, lettera b), della legge 29 luglio 2010, n. 120 (Disposizioni in materia di sicurezza stradale), nella parte in cui prevede l’applicazione automatica della sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente di guida qualora per il conducente che provochi un incidente stradale sia accertato un valore corrispondente ad un tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi per litro (g/l). 1.1.– La Corte rimettente espone in fatto che l’imputato aveva proposto appello avverso la sentenza del Tribunale ordinario di Milano con cui era stato ritenuto responsabile del reato di cui all’art. 186, commi 1, 2, lettera c), 2-bis e 2-sexies, cod. strada e successive modifiche, per avere circolato sulla pubblica via, durante le ore notturne (alle ore 1,50 circa), alla guida di un’autovettura, benché in stato di ebbrezza in conseguenza dell’uso di bevande alcoliche, con un tasso alcolemico riscontrato superiore a 1,5 g/l (nella specie 1,63 g/l), provocando in tali circostanze un incidente stradale; reato per il quale era stato condannato alla pena di mesi otto di arresto ed euro 7.200 di ammenda, con la concessione dei doppi benefici di legge e l’applicazione della sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente di guida. 1.2.– Ai fini della rilevanza, valutata l’impossibilità di procedere ad un’interpretazione costituzionalmente orientata, ostandovi il chiaro tenore della disposizione nella parte in cui recita «la patente di guida è sempre revocata», la Corte d’appello evidenzia che, alla luce della contenuta gravità del fatto-reato e della personalità del reo, questi potrebbe beneficiare di una parziale riforma in senso favorevole della sentenza di primo grado, con applicazione della sola sospensione della patente di guida invece che della revoca, in considerazione del fatto che, pur avendo perso il controllo del mezzo ed impattato con il veicolo contro il guard-rail, non aveva cagionato danni a sé stesso o a terzi, né intralcio alla circolazione, aveva un tasso alcolico di poco superiore alla soglia massima, risultava incensurato; concessi i doppi benefici di legge, l’unica misura punitiva concretamente efficace restava la revoca della patente di guida, il cui primario ruolo afflittivo era accentuato dalle peculiari condizioni personali dell’imputato, occupato come agente di commercio, al quale l’impossibilità di ridotarsi di un titolo, se non a seguito di nuovo esame dopo cinque anni dal ritiro, avrebbe arrecato un serio pregiudizio occupazionale incidendo sulla sua capacità di proseguire e mantenere l’attività lavorativa. 1.3.– Quanto alla non manifesta infondatezza, la Corte rimettente ricorda che il sindacato di questa Corte sulla proporzionalità della sanzione penale, quando la scelta e la commisurazione della pena ad opera del legislatore trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio, come nel caso di sperequazioni tra situazioni omogenee e, di converso, in caso di equiparazione di situazioni oggettivamente differenti, prive di ragionevole giustificazione (sono citate le sentenze n. 222 del 2018, n. 236 del 2016, n. 68 del 2012 e n. 50 del 1980), è stato esteso anche alle sanzioni amministrative punitive, che «condividono con le pene il carattere reattivo rispetto a un illecito» – come recentemente ribadito dalla sentenza n. 95 del 2022, di cui il rimettente riporta ampi stralci –, con la conseguenza che anche per esse «si prospetta, dunque, l’esigenza che non venga manifestamente meno un rapporto di congruità tra la sanzione e la gravità dell’illecito sanzionato; evenienza nella quale la compressione del diritto diverrebbe irragionevole e non giustificata» (è citata la sentenza n. 185 del 2021 e, in senso conforme, le sentenze n. 112 e n. 88 del 2019 e n. 22 del 2018). Premesso che della natura (anche) punitiva (oltre che preventiva) della sanzione amministrativa della revoca della patente di guida non possa più dubitarsi (è citata la sentenza n. 68 del 2021), il giudice a quo prospetta una tensione della misura sanzionatoria in esame, idonea a comprimere la libertà di circolazione ex art. 16 Cost. e, talvolta, il diritto al lavoro tutelato dagli artt. 4 e 35 Cost., con il principio di eguaglianza-ragionevolezza dettato dall’art. 3 Cost., nonché con il principio di proporzionalità della pena, perché accomunerebbe una serie di situazioni giuridiche disomogenee in termini di offensività, invece graduabili sotto il profilo della colpevolezza e pertanto meritevoli, almeno in astratto, di un trattamento differenziato, potendo maggiormente conformarsi ai principi sopra richiamati, in luogo del previsto automatismo sanzionatorio, consentire al giudice di scegliere la sanzione amministrativa accessoria da irrogare, all’esito di un esame di tutte le circostanze di fatto caratterizzanti la vicenda concreta. 1.4.– Osserva sempre la rimettente che un differente livello di offensività della condotta punita dalla norma censurata potrebbe dipendere, ad esempio, dall’entità del fattore di pericolo attivato (come in caso di guida in stato di ebbrezza in un’area desolata ovvero in un centro abitato; su vie interne o rurali ovvero su strade provinciali/statali o autostrade; in zone poco battute ovvero trafficate), dalla gravità del danno cagionato (solo a cose ovvero anche a persone, oppure nessun danno), laddove, secondo il diritto vivente, la nozione di “incidente” rilevante in tema di reati stradali include qualunque forma di collisione del veicolo contro un ostacolo ovvero la sua fuoriuscita di strada, a prescindere dalla causazione di un danno a cose o persone, dall’entità del superamento della soglia di tasso alcolico fissata dalla legge, e dalle effettive modalità attraverso le quali il comportamento dell’agente si estrinseca. Ferma la rimproverabilità della scelta cosciente di porsi alla guida nonostante l’assunzione di alcolici, per la Corte rimettente andrebbe distinto il grado della colpa del conducente ebbro, che abbia dato luogo ad incidente circolando in maniera gravemente difforme rispetto alle prescrizioni dettate dalle norme stradali e ai generali canoni di diligenza, prudenza e perizia (guida a velocità elevata, cambi repentini di carreggiata, sorpassi improvvidi), da quello di colui che seppur alterato, abbia comunque osservato le regole della strada, modulando lo stile di guida anche in relazione alle proprie condizioni psicofisiche (procedendo a velocità assai moderata, mantenendo l’andatura nella corsia di destra ed evitando sorpassi), e finendo per perdere il controllo del veicolo solamente per il calo di riflessi determinato dallo stato di ubriachezza. 1.5.– Infine, il giudice a quo si confronta con la sentenza di questa Corte n. 88 del 2019 che, nel dichiarare la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 222, comma 2, quarto periodo, cod. strada, fatte salve le ipotesi in cui ricorrano le «circostanze aggravanti previste dai rispettivi commi secondo e terzo degli artt. 589-bis e 590-bis cod. pen.», non avrebbe comunque affermato la permanente validità dell’automatismo sanzionatorio previsto dall’art. 186, comma 2-bis, cod. strada, emergendo palese il divario di offensività tra delitti colposi che implicano una compromissione grave dell’integrità fisica di un terzo, quando non addirittura la sua morte, e una contravvenzione che può consumarsi anche in totale assenza di danni. 1.6.– In sintesi, la Corte rimettente ritiene le questioni rilevanti e non manifestamente infondate in quanto l’impianto sanzionatorio vigente si configurerebbe come sproporzionato e irragionevole, in violazione dell’art. 3 Cost., nella parte in cui, con l’automatica comminatoria della revoca della patente di guida, anche nei casi di minore gravità, non permetterebbe al giudice di infliggere una sanzione amministrativa accessoria più tenue al responsabile del reato di cui all’art. 186, commi 2, lettera c), e 2-bis, cod. strada che non abbia cagionato danni a terzi, a maggior ragione dopo che la citata sentenza n. 88 del 2019 ha fatto cadere l’obbligatorietà della revoca della patente per il condannato ai sensi degli artt. 589-bis e 590-bis del codice penale, purché non in stato di ubriachezza. 2.– Si è costituita in giudizio davanti a questa Corte la parte del giudizio principale S. R., prospettando anch’essa la fondatezza delle sollevate questioni di legittimità costituzionale. 2.1.– La difesa dell’imputato, descritta la dinamica dell’incidente stradale, premette che la norma censurata imporrebbe di applicare genericamente la sanzione per «qualsiasi avvenimento inatteso che, interrompendo il normale svolgimento della circolazione stradale, possa provocare pericolo alla collettività» (è citata la sentenza della Corte di cassazione, sezione quarta penale, 19 giugno 2019, n. 27211) e, quindi, senza alcuna distinzione in relazione alla tipologia di sinistro che si viene a verificare; previsione che, alla luce della citata sentenza di questa Corte n. 88 del 2019 che, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 222, comma 2, cod. strada, ha riconosciuto al giudice la possibilità di esercitare il proprio potere discrezionale scegliendo la misura accessoria maggiormente idonea al caso concreto per le fattispecie più gravi dei delitti previsti dagli artt. 589-bis e 590-bis cod. pen., renderebbe evidente una difformità di trattamento tra le fattispecie in cui un soggetto rechi danno a cose o persone, fino a cagionarne la morte, seppure non sotto l’effetto di ebbrezza alcolica, punite come delitti, e le fattispecie in cui il soggetto agente si ponga alla guida in stato di alterazione alcolica o da sostanze stupefacenti e cagioni un sinistro, senza tuttavia ledere nulla e/o nessuno, punite come contravvenzioni, in cui è impedito al giudice, con una presunzione assoluta di necessità della revoca, di adeguare la risposta sanzionatoria alle esigenze, alla colpevolezza, alla gravità del fatto ed alla concreta condotta del reo, attraverso una ponderata valutazione caso per caso. Ripercorsa la giurisprudenza costituzionale sul principio di proporzionalità della pena, in riferimento sia al principio di eguaglianza, sia all’art. 27, primo e terzo comma, Cost., e quella sull’estensione alle sanzioni amministrative di carattere sostanzialmente “punitivo” di talune garanzie costituzionali riservate alla materia penale, la parte sottolinea che la norma censurata non sarebbe rispettosa di tali principi in quanto, sebbene la causazione del sinistro possa dare luogo a più o meno danni, ed essere più o meno pericolosa, a seconda del luogo in cui è posta in essere e dell’orario in cui si verifica, a differenza della risposta sanzionatoria penale che consentirebbe di svolgere una valutazione perfettamente parametrata al caso di specie, sino ad azzerarsi attraverso l’istituto della sospensione condizionale della pena, la sanzione amministrativa appiattirebbe sullo stesso livello le diverse ipotesi concrete sussumibili nell’ipotesi di cui all’art. 186, comma 2-bis, cod. strada, sopravvivendo come misura maggiormente afflittiva. 2.2.– Non nega la difesa che il cagionare o meno un danno grave o un semplice sinistro senza conseguenze apprezzabili possa dipendere da fattori esterni alla condotta, riconducibili alla mera casualità, ma insiste sulla necessità che, quando sia differente il grado di colpevolezza per la diversa prevedibilità del danno, sia lasciata al giudice la discrezionalità di dosare la sanzione in base al grado di rimproverabilità della condotta, quantomeno con riferimento a quei parametri e fattori che rientrano nel dominio dell’agente e sono da lui preveduti o prevedibili; la manifesta sproporzione, per eccesso, della reazione sanzionatoria rispetto al disvalore concreto dei fatti pure ricompresi nella norma censurata – prosegue – sarebbe evidente nel caso dell’imputato ritenuto meritevole della sospensione condizionale della pena eppure attinto da una sanzione amministrativa maggiormente afflittiva di quella penale, senza tener conto del fatto che generalmente la revoca viene privata della sua natura preventiva in quanto è preceduta da una misura cautelare sospensiva di durata inferiore, per cui l’imputato rientra in possesso del titolo abilitativo ben prima della definitività della sentenza, per poi esserne definitivamente privato quando condannato. 2.3.– In conclusione, per la difesa dell’imputato, la fissità della sanzione amministrativa, combinata con le severe ripercussioni determinate dalla misura sanzionatoria, comporterebbe una violazione del principio di proporzionalità, sottraendo al giudice, unico conoscitore delle circostanze di merito, la possibilità di valutare tutti gli elementi del fatto e di irrogare, a propria discrezione, la sanzione amministrativa punitiva più idonea al caso concreto. 3.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni di legittimità costituzionale siano dichiarate inammissibili e, comunque, non fondate in riferimento a tutti i parametri evocati. La difesa statale, ritenuta incompleta la ricostruzione del quadro normativo operata dal giudice a quo, ripercorre nella sua interezza l’art. 186 cod. strada, rubricato «Guida sotto l’influenza dell’alcool» che, in un complesso articolato normativo, regola compiutamente la fattispecie in ogni sua possibile configurazione, con rigida previsione di parametri, situazioni di danno e condizioni dell’agente, dettando una disciplina che si connota per una chiara finalità preventiva e per una crescente severità, in relazione alla quantità di sostanza alcolica presente nel circolo sanguigno dell’agente durante la guida e degli eventuali eventi di danno che scaturiscano dalla guida in stato di ebbrezza alcolica; riportati i dati statistici del periodo 2010-2019 che attestano un aumento dei sinistri stradali occorsi in conseguenza dell’ebbrezza alcolica, evidenzia che l’art. 186 cod. strada prevede la misura della revoca della patente di guida solo per l’ipotesi più grave (oltre 1,5 g/l e incidente del veicolo) in cui, secondo gli studi sull’effetto dell’alcol sul corpo umano, il guidatore risulta assolutamente inidoneo alla guida di qualsiasi veicolo. 3.1.– L’interveniente eccepisce, in via preliminare, l’inammissibilità delle questioni per la loro formulazione generica ed aperta, non chiarendo l’ordinanza di rinvio quale possa o debba essere il tempo di revoca della patente di guida o se essa debba essere semplicemente esclusa nei casi di sospensione condizionale della pena principale, sicché il rimettente chiederebbe non di rettificare una deviazione delle scelte legislative, bensì di sostituirsi ad esse senza nemmeno indicare a questa Corte quale debba, o possa essere, la misura temporale minima della revoca della patente per il reato de quo. 3.2.– A sostegno della non fondatezza nel merito, l’Avvocatura rimarca che la previsione del legislatore, nell’ambito dell’esercizio della sua discrezionalità, di una progressione criminosa da cui consegue la revoca del titolo abilitativo, a prescindere dalla misura di pena principale irrogata nel singolo caso, costituisce una scelta ragionevole, proporzionata e ancorata alla tipizzazione di massima gravità della condotta, sanzionata dalla norma censurata con una misura amministrativa di natura preventiva, che tende alla protezione di beni giuridici primari ed è giustificata dalla temporanea inaffidabilità alla guida del soggetto condannato; la norma censurata non confliggerebbe né con la proporzionalità della sanzione, in relazione al fatto, né con il principio di offensività, posto che la complessiva regolamentazione della guida in stato d’ebbrezza alcolica, comprensiva della fattispecie aggravata, prevede la progressione della sanzione accessoria, dalla sospensione alla revoca della patente, ancorata a specifici e tassativi parametri, comportanti oggettivi e altrettanto crescenti pericoli ai beni giuridici protetti dalla norma (vita ed integrità della salute compresa quella del guidatore), senza che la possibile sospensione condizionale della pena principale comporti automaticamente che la sospensione debba riguardare anche la sanzione accessoria, o che l’incidenza di fatti casuali ed esterni collegati agli eventi che ad essa conseguono depotenzino la grave offensività intrinseca ed estrinseca della condotta che determina la revoca del titolo abilitativo per un certo periodo di tempo. 3.3.– Infine, quanto al richiamo alla citata sentenza n. 88 del 2019, la difesa statale osserva che l’ordinanza di rimessione avrebbe posto a raffronto situazioni giuridiche disomogenee in quanto, nell’ipotesi di omicidio o lesioni stradali colpose, non correlate all’alcol o agli stupefacenti, può accadere che la misura della responsabilità penale possa essere limitata, ad esempio, per un eventuale concorso di colpa della parte offesa, giustificando così l’attribuzione al giudice della diagnosi di inaffidabilità alla guida del soggetto coinvolto con la possibilità di sostituire la revoca con la sospensione temporanea della patente. Considerato in diritto 1.– Con ordinanza del 14 luglio 2022 (reg. ord. n. 96 del 2022), la Corte d’appello di Milano ha sollevato, in riferimento all’art. 3, nonché al principio di offensività come desunto dagli artt. 13, 25, secondo comma, e 27, primo e terzo comma, Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 186, comma 2-bis, cod. strada, come da ultimo modificato dall’art. 33, comma 1, lettera b), della legge n. 120 del 2010, nella parte in cui prevede l’automatica applicazione della sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente di guida qualora per il conducente che provochi un incidente stradale sia accertato un valore corrispondente ad un tasso alcolemico superiore a 1,5 g/l. 1.1.– A giudizio della Corte rimettente, la norma oggetto di censura contrasterebbe con i parametri costituzionali evocati perché, sussumendo in termini di omogeneità una vasta gamma di condotte diverse e graduabili sotto i profili dell’offensività e della colpevolezza, configurerebbe un impianto sanzionatorio sproporzionato e irragionevole nella parte in cui, con l’automatica comminatoria della revoca della patente di guida, anche nei casi di minore gravità, non permetterebbe al giudice di infliggere una sanzione amministrativa accessoria più tenue al responsabile del reato di cui all’art. 186, commi 2, lettera c), e 2-bis, cod. strada che non abbia cagionato danni a terzi. Specie dopo che la sentenza di questa Corte n. 88 del 2019 ha fatto venir meno l’obbligatorietà della revoca della patente per il condannato ai sensi degli artt. 589-bis e 590-bis cod. pen., purché non in stato di ubriachezza, la previsione della necessaria revoca del titolo per il conducente in stato di ebbrezza che non abbia arrecato lesioni o danni di altro genere sarebbe priva di idonea giustificazione. 2.– Devono essere, innanzitutto, dichiarate inammissibili le questioni di legittimità costituzionale sollevate con riferimento agli artt. 13, 25, secondo comma, e 27, primo e terzo comma, Cost., in quanto del tutto prive di motivazione. Il giudice rimettente si è limitato ad evocare i suddetti ed eterogenei parametri costituzionali a fondamento del principio di offensività, congiuntamente e senza alcuna distinzione, omettendo una specifica ed adeguata illustrazione dei motivi di censura in punto di non manifesta infondatezza. Posto che ai fini dell’ammissibilità delle questioni non è sufficiente la mera indicazione delle norme da raffrontare, l’ordinanza non fornisce elementi che consentano di valutare come la norma censurata possa incidere sui parametri evocati, omettendo di allegare argomenti a sostegno degli effetti pregiudizievoli di tale incidenza (sull’inammissibilità per difetto di motivazione sulla non manifesta infondatezza, ex plurimis, sentenze n. 118 del 2022, n. 213 e n. 178 del 2021, n. 126 del 2018 e n. 70 del 2015). 3.– Quanto alle censure incentrate sulla violazione dell’art. 3 Cost. che, a differenza delle precedenti, risultano ampiamente motivate, va rigettata l’eccezione di inammissibilità sollevata dalla difesa statale per asserita genericità delle stesse. La Corte rimettente, oltre ad aver analiticamente esposto argomenti a sostegno della non manifesta infondatezza della censura, ha individuato in modo specifico e con sufficiente determinatezza la ritenuta irragionevolezza della disposizione nel fatto che non consentirebbe al giudice di comminare una sanzione accessoria più tenue rispetto alla revoca della patente – individuata nella sospensione – e quindi di applicare trattamenti sanzionatori differenziati rispetto a situazioni non omogenee. Le lacune lamentate attengono a profili irrilevanti rispetto alla censura di difetto di proporzionalità dell’automatismo sanzionatorio, avendo questa Corte affermato da tempo che il suo intervento «in vista di una tutela effettiva dei principi e dei diritti fondamentali incisi dalle scelte sanzionatorie del legislatore, che rischierebbero di rimanere senza possibilità pratica di protezione» non può ritenersi «vincolato, come è stato a lungo in passato, ad una rigida esigenza di “rime obbligate” nell’individuazione della sanzione applicabile in luogo di quella dichiarata illegittima» (sentenza n. 222 del 2018), risultando a tal fine «sufficiente la presenza nell’ordinamento di una o più soluzioni “costituzionalmente adeguate”, che si inseriscano nel tessuto normativo coerentemente con la logica perseguita dal legislatore (ex plurimis, sentenze n. 28 del 2022, n. 63 del 2021, n. 252 e n. 224 del 2020, n. 99 e n. 40 del 2019, n. 233 e n. 222 del 2018)» (sentenza n. 95 del 2022; nello stesso senso, sentenze n. 245 del 2019 e n. 180 del 2018). Inoltre, gli elementi descrittivi in merito al procedimento principale, quali le circostanze fattuali in cui è stato commesso il reato, la personalità e le condizioni personali dell’imputato, risultano sufficienti a suffragare l’applicabilità della disposizione censurata ed il requisito della rilevanza del dubbio di costituzionalità rispetto ad una eventuale riforma in senso favorevole della sentenza di primo grado con riferimento al trattamento sanzionatorio (ex plurimis, sentenze n. 169 del 2023, n. 152 e n. 59 del 2021 e n. 18 del 2020). 4.– Preliminare all’esame del merito della questione, in riferimento all’art. 3 Cost., è il quadro normativo in cui si colloca la disposizione censurata. 4.1.– L’art. 186 codice della strada, nel testo vigente, sancisce, al comma 1, il divieto di guidare in stato di ebbrezza. Ciò fa individuando, al comma 2, tre distinti illeciti, uno di carattere amministrativo e, gli altri due, di carattere penale contravvenzionale, ordinati per gravità crescente in misura proporzionale all’aumento del valore del tasso alcolemico accertato. In particolare, la condotta, ove non costituisca più grave reato, è punita: a) con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 543 ad euro 2.170, qualora sia stato accertato un valore corrispondente ad un tasso alcolemico superiore a 0,5 e non superiore a 0,8 g/l; all’accertamento di tale violazione consegue la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida da tre a sei mesi; b) con l’ammenda da euro 800 ad euro 3.200 e l’arresto fino a sei mesi, qualora sia stato accertato un valore corrispondente ad un tasso alcolemico superiore a 0,8 e non superiore a 1,5 g/l; all’accertamento del reato consegue in ogni caso la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida da sei mesi ad un anno; c) con l’ammenda da euro 1.500 ad euro 6.000 e l’arresto da sei mesi ad un anno, qualora sia stato accertato un valore corrispondente ad un tasso alcolemico superiore a 1,5 g/l; all’accertamento del reato consegue in ogni caso la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida da uno a due anni, nonché la confisca del veicolo, salvo che questo appartenga a terzi. La progressione sanzionatoria che ne risulta mostra quindi una piena graduazione anche con riferimento alla sanzione accessoria della sospensione della patente di guida (che, da un minimo di tre mesi per i fatti lievi, può arrivare fino a due anni per le condotte più gravi in ragione della misura del tasso alcolemico). 4.2.– Nella disposizione, dopo il comma 2, è stato inserito il comma 2-bis dall’art. 5, comma 1, lettera a), del decreto-legge 3 agosto 2007, n. 117 (Disposizioni urgenti modificative del codice della strada per incrementare i livelli di sicurezza nella circolazione), convertito, con modificazioni, nella legge 2 ottobre 2007, n. 160 e, successivamente, sostituito dall’art. 4, comma 1, lettera b-bis), del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, nella legge 24 luglio 2008, n. 125, ed infine modificato, con l’aggiunta della parte sottoposta allo scrutinio di legittimità costituzionale, dall’art. 33, comma 1, lettera b), della legge n. 120 del 2010, a decorrere dal 30 luglio 2010, ai sensi di quanto disposto dal comma 4 del medesimo art. 33. Con tale comma 2-bis è stata introdotta, da ultimo a decorrere dal 30 luglio 2010, una circostanza aggravante per l’ipotesi in cui il conducente in stato di alterazione alcolica determini un incidente stradale, sicché la progressione sanzionatoria del comma 2 risulta inasprita. In via generale, è previsto il raddoppio delle sanzioni, indistintamente amministrative, penali o accessorie, di cui ai commi 2 dell’art. 186 e 3 dell’art. 186-bis (norma che già aggrava la sanzione per la fattispecie autonoma della guida sotto l’influenza dell’alcol per conducenti di età inferiore a ventuno anni e per i neo-patentati e per chi esercita professionalmente l’attività di trasporto di persone o di cose), nonché il fermo amministrativo del veicolo per centottanta giorni, salvo che il veicolo appartenga a persona estranea all’illecito. Per l’ipotesi ulteriormente aggravata dall’accertamento di un tasso alcolemico superiore a 1,5 g/l per chi alla guida provochi un incidente stradale, il medesimo comma 2-bis, nel suo secondo periodo, statuisce che «la patente di guida è sempre revocata ai sensi del capo II, sezione II, del titolo VI», fatto salvo quanto previsto dal quinto e sesto periodo della lettera c) del comma 2 dello stesso articolo in tema di confisca e sequestro del veicolo, nonché l’applicazione dell’art. 222 dello stesso decreto. In tale modo è riprodotta, in simmetria, la stessa progressione sanzionatoria del comma 2 della medesima disposizione. Dunque, la sanzione amministrativa accessoria va dalla sospensione della patente di guida per una durata minima di sei mesi per fatti lievi fino alla revoca della patente per le condotte più gravi in ragione sempre della misura del tasso alcolemico e con il concorso della circostanza aggravante di aver provocato un incidente. 4.3.– A completamento del regime sanzionatorio rileva l’art. 219 cod. strada che disciplina la revoca della patente di guida, il cui comma 3-ter prevede che, quando la revoca è disposta a seguito delle violazioni di cui all’art. 186 dello stesso decreto, non è possibile conseguirne una nuova prima di tre anni a decorrere dalla data di accertamento del reato, fatto salvo quanto stabilito dai commi 3-bis e 3-ter dell’art. 222, che prevedono aumenti del periodo di interdizione, tra un minimo di cinque sino ad un massimo di venti anni, nel caso in cui la sanzione consegua ai reati di cui agli artt. 589-bis e 590-bis cod. pen.; termine ulteriormente aumentato sino a trent’anni nel caso in cui il conducente si sia dato alla fuga. 4.4.– Può aggiungersi che la guida in stato di ebbrezza va ricondotta alla categoria dei reati di pericolo presunto (vedi anche sentenza n. 211 del 2022), ove l’ambito di rilevanza penale del fatto, e così la gravità dell’offesa, è delimitato dal superamento quantitativo di valori soglia del tasso alcolemico; la pericolosità è tratteggiata dal legislatore individuando comportamenti che, alla stregua di informazioni scientifiche o del notorio di comune fonte esperienziale desumibile dai dati statistici della incidentalità stradale, si contraddistinguono per una spiccata attitudine a turbare la regolarità della circolazione stradale mettendo in pericolo la vita, l’incolumità e i beni delle persone coinvolte. 5.– Ciò premesso, la questione sollevata in riferimento all’art. 3 Cost. non è fondata. 6.– Il sindacato costituzionale sulla proporzionalità della pena – inizialmente affermato sotto il profilo del principio di eguaglianza ex art. 3 Cost., con la valorizzazione del principio di personalità della responsabilità penale sancito dal primo comma dell’art. 27 Cost., da leggersi alla luce della necessaria funzione rieducativa della pena di cui al terzo comma dello stesso articolo – ha vieppiù ricompreso l’ulteriore canone della sua individualizzazione, che si oppone in linea di principio alla previsione di pene fisse nella loro misura (sentenza n. 222 del 2018, che richiama in senso conforme le sentenze n. 50 del 1980, n. 104 del 1968 e n. 67 del 1963). In via generale, la pena deve essere adeguatamente calibrata non solo al concreto contenuto di offensività del fatto di reato per gli interessi protetti, ma anche al disvalore soggettivo espresso dal fatto medesimo, in modo da escludere che la severità della pena comminata dal legislatore possa risultare manifestamente sproporzionata rispetto alla gravità oggettiva e soggettiva del reato (sentenze n. 63 del 2022, n. 143 e n. 55 del 2021 e n. 73 del 2020). Quanto alla necessità di graduare le sanzioni alla concreta gravità della condotta, questa Corte, con riferimento alle sanzioni penali in senso stretto, ha più volte affermato in via di principio che previsioni sanzionatorie rigide non appaiono in linea con il “volto costituzionale” del sistema penale, potendo il dubbio di illegittimità costituzionale essere superato solo «a condizione che, per la natura dell’illecito sanzionato e per la misura della sanzione prevista, quest’ultima appaia ragionevolmente “proporzionata” rispetto all’intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato» (sentenze n. 266 del 2022, n. 185 del 2021, n. 88 del 2019, n. 222 del 2018 e, nello stesso senso, n. 50 del 1980). Se la “regola” è rappresentata dalla “discrezionalità”, ogni fattispecie sanzionata con pena fissa (qualunque ne sia la specie) è per ciò solo “indiziata” di illegittimità, e tale indizio potrà essere smentito soltanto in seguito a un controllo strutturale della fattispecie di reato che viene in considerazione attraverso la puntuale dimostrazione che la peculiare struttura della fattispecie la renda «proporzionata» all’intera gamma dei comportamenti tipizzati (sentenza n. 222 del 2018). Tali principi valgono anche per le sanzioni amministrative che condividono con quelle penali la finalità punitiva, per le quali – pur a fronte dell’ampia discrezionalità che al legislatore compete nell’individuazione degli illeciti e nella scelta del relativo trattamento punitivo – si prospetta, allo stesso modo che per le pene, l’esigenza che non venga meno un rapporto di congruità tra la sanzione e la gravità dell’illecito sanzionato; evenienza nella quale la compressione del diritto diverrebbe irragionevole e non giustificata (sentenze n. 95 del 2022 e n. 185 del 2021; in senso conforme, le sentenze n. 40 del 2023, n. 266 e n. 246 del 2022, nonché le sentenze n. 212, n. 115, n. 112 e n. 88 del 2019 e n. 22 del 2018). 7.– Venendo alla particolare fattispecie della revoca della patente di guida, che ha connotazione sostanzialmente punitiva (sentenza n. 68 del 2021), questa Corte in numerose occasioni è stata chiamata a sindacare la legittimità costituzionale di norme che prevedevano la revoca stessa, sia come sanzione amministrativa automatica disposta dal prefetto (sentenze n. 246 del 2022, n. 99 e n. 24 del 2020 e n. 22 del 2018), che quale sanzione accessoria disposta dal giudice penale (sentenze n. 266 del 2022 e n. 88 del 2019). In particolare, la sentenza n. 88 del 2019 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 222, comma 2, cod. strada, nella parte in cui prevedeva «la sanzione amministrativa della revoca della patente, estesa indistintamente a tutte le ipotesi – sia aggravate dalle circostanze “privilegiate” sia non aggravate – di omicidio stradale e di lesioni personali stradali gravi o gravissime», senza che «il giudice possa disporre, in alternativa alla revoca della patente di guida, la sospensione della stessa ai sensi del secondo e terzo periodo dello stesso comma 2 dell’art. 222 cod. strada allorché non ricorra alcuna delle circostanze aggravanti previste dai rispettivi commi secondo e terzo degli artt. 589-bis e 590-bis cod. pen.». La Corte ha ritenuto che la disposizione censurata desse luogo ad «un indifferenziato automatismo sanzionatorio, che costituisce possibile indice di disparità di trattamento e irragionevolezza intrinseca», mentre, alla luce del medesimo criterio, ha escluso il contrasto con l’art. 3 Cost. della sanzione fissa della revoca della patente per le violazioni più gravi di omicidio stradale o lesioni personali gravi o gravissime stradali aggravate dalla presenza di un tasso alcolemico superiore a 1,5 g/l. Deve anche ricordarsi che l’art. 120, comma 2, cod. strada è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui dispone che il prefetto «provvede» – invece che «può provvedere» – alla revoca della patente di guida nei confronti dei soggetti che sono o sono stati sottoposti a misure di sicurezza personali o di prevenzione (sentenze n. 99 e n. 24 del 2020). Analoghe dichiarazioni di illegittimità costituzionale hanno avuto l’effetto di rimuovere l’automatismo della revoca della patente di guida conseguente alla condanna per reati in materia di stupefacenti (sentenza n. 22 del 2018) o alla condotta del custode di un veicolo sottoposto a sequestro, il quale abusivamente circoli con il medesimo o, comunque, consenta ad altri di circolare (sentenza n. 246 del 2022). Più recentemente, la sentenza n. 266 del 2022 ha, invece, ritenuto non fondata la questione, sollevata in riferimento all’art. 3 Cost., con cui era stato censurato l’art. 176, comma 22, cod. strada, nella parte in cui, con riguardo alla violazione del divieto di inversione del senso di marcia nelle autostrade, prevede la sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente di guida a carico del trasgressore per qualsiasi tratto autostradale, compresi i piazzali antistanti ai caselli di entrata e di uscita, sul rilievo che la revoca non possa ritenersi manifestamente irragionevole né sproporzionata rispetto alla gravità dell’illecito, poiché anche chi inverte il senso di marcia nel tratto immediatamente successivo ai caselli di uscita dall’autostrada crea un gravissimo pericolo per la vita e l’incolumità propria e altrui. 8.– Orbene, deve considerarsi che la fattispecie di guida in stato di ebbrezza di cui all’art. 186 cod. strada si declina – come si è già visto (sopra punto 6 e seguenti) – secondo una precisa ed articolata graduazione che accomuna pena principale e sanzione accessoria in una scala di gravità progressivamente maggiore. In tal modo, l’impianto sanzionatorio, che punisce la guida in stato di ebbrezza, prevede diversi “gradi di intensità” della violazione, ai quali corrispondono differenti livelli di sanzioni in progressione crescente finalizzati alla prevenzione e repressione di comportamenti pericolosi per gli utenti della strada. Il divario tra le varie misure – detentive, pecuniarie e accessorie – è correlato all’incremento della pericolosità della condotta, graduata sulla base del livello del tasso alcolemico. In particolare, la sanzione amministrativa accessoria è determinata in un intervallo che va dalla sospensione della patente di guida per tre mesi, per le condotte meno gravi, fino alla revoca della patente, per la condotta più grave. Tale è la guida in stato di ebbrezza con tasso alcolemico superiore a 1,5 g/l, ove la condotta sia aggravata per aver il conducente provocato un incidente. Tale circostanza aggravante, che mostra che il superamento della soglia di 1,5 g/l di tasso alcolemico è stato tale, in concreto, da aver compromesso il controllo dell’autovettura, individua e sanziona una condotta particolarmente pericolosa, quale che sia l’entità dell’incidente, e rende non irragionevole che, anche a fini di deterrenza per la salvaguardia della sicurezza pubblica nella circolazione stradale, sia collocata in cima alla scala delle condotte sanzionate in misura progressivamente più elevata. È vero – come indica il giudice a quo – che l’imputato potrebbe aver provocato, in concreto, un «incidente» di modesta portata, come nel caso di specie. Ma ciò non esclude – secondo una valutazione non irragionevole del legislatore – che tale condotta si collochi comunque al livello più elevato della descritta graduazione. La modestia delle conseguenze dell’incidente non smentisce la gravità della condotta di chi si mette alla guida in stato di ebbrezza con tasso alcolemico superiore all’1,5 g/l in una condizione tale da non aver il pieno controllo del veicolo condotto, come mostra ex post l’incidente provocato a causa di tale alterata condizione psico-fisica. Si tratta di un comportamento altamente pericoloso per la vita e l’incolumità delle persone, tenuto in spregio del dovuto rispetto di tali beni fondamentali. La previsione di una severa misura amministrativa di natura preventiva tende alla protezione di beni giuridici primari ed è giustificata dalla condizione di temporanea inaffidabilità alla guida, alla quale si è posto consapevolmente il soggetto condannato, e dalla maggiore pericolosità del comportamento censurato rispetto alle ipotesi non parimenti aggravate. Tenuto conto che «la ratio dell’aggravante è da ricercarsi nella volontà del legislatore di punire più gravemente qualsiasi turbativa delle corrette condizioni di guida, in quanto ritenuta potenzialmente idonea a porre in pericolo l’incolumità personale dei soggetti e dei beni coinvolti nella circolazione a causa della strutturale pericolosità connessa alla circolazione dei veicoli che richiedono una particolare abilitazione alla guida» (ordinanza n. 247 del 2013), la scelta di non distinguere, ai fini dell’operatività della revoca, in funzione della gravità dell’incidente corrisponde a un criterio di prevenzione generale non irragionevole nei confronti di colui il quale, con un tasso alcolemico superiore al livello soglia dell’1,5 g/l, guidi in un evidente stato di alterazione e di compromissione delle sue condizioni fisiche e psichiche. Pertanto, non vi è alcun «indifferenziato automatismo sanzionatorio, che costituisce possibile indice di disparità di trattamento e irragionevolezza intrinseca» (sentenza n. 88 del 2019). 9.– Del resto, per il reato di guida in stato di ebbrezza il giudice ha già un margine di apprezzamento sufficiente perché la sanzione inflitta sia proporzionata alla complessiva considerazione delle peculiarità oggettive e soggettive del caso di specie, potendo l’aumento della pena oscillare tra un minimo e un massimo, raddoppiati nell’ipotesi aggravata, ma comunque da determinarsi in funzione della gravità del danno derivante dal sinistro o del grado della colpa. L’eventualità che, a seguito della concessione di benefici di legge, la revoca della patente di guida mantenga un primario ruolo afflittivo, permanendo come unica misura punitiva concretamente efficace, risulta, poi, coerente sia con la finalità preventiva della sanzione, perché consente di evitare che il reo ricrei la situazione di pericolo per un congruo periodo di tempo; sia con la finalità deterrente, perché sollecita una maggiore consapevolezza della gravità del comportamento; sia con la funzione rieducativa, perché impone al condannato di affrontare il percorso di esami che lo abilita alla guida per ottenere la nuova patente, instaurando un processo virtuoso tramite una utile formazione finalizzata alla prevenzione. Infatti, la revoca della patente di guida non ha una efficacia ostativa permanente, in quanto il titolare di patente revocata può conseguire un nuovo titolo abilitativo in un termine che l’art. 219, comma 3-ter, cod. strada, nel caso in cui la misura consegua alle violazioni di cui agli artt. 186, 186-bis e 187 cod. strada, ha fissato in tre anni. 10.– Infine, deve escludersi un’irrazionalità estrinseca che deriverebbe dal confronto, quale tertium comparationis, con la posizione del soggetto condannato per i reati di omicidio stradale o lesioni stradali gravi o gravissime di cui agli artt. 589-bis e 590-bis cod. pen., che potrebbe invece beneficiare della scelta discrezionale del giudice tra revoca e sospensione della patente. Secondo il costante indirizzo di questa Corte, la violazione del principio di uguaglianza sussiste solo qualora situazioni omogenee siano disciplinate in modo ingiustificatamente diverso e non quando alla diversità di disciplina corrispondano situazioni non assimilabili (ex plurimis, sentenze n. 171 del 2022, n. 172 e n. 71 del 2021, n. 165 e n. 85 e del 2020, n. 155 del 2014, n. 108 del 2006, n. 340 e n. 136 del 2004). L’automatismo della revoca della patente ai sensi dell’art. 222, comma 2, quarto periodo, cod. strada è stato censurato dalla sentenza n. 88 del 2019 solo con riferimento alle condotte colpose poste in essere da soggetti che avevano agito in condizioni psico-fisiche non gravemente alterate, ossia «allorché non ricorra alcuna delle circostanze aggravanti previste dai rispettivi commi secondo e terzo degli artt. 589-bis e 590-bis cod. pen.», restando quindi vigente in particolare nel caso di conducenti con un tasso alcolemico superiore a 1,5 g/l. Il tertium comparationis non è quindi utilmente invocabile, atteso che esso disciplina in termini analoghi la condotta di un soggetto che, in pari stato di ebbrezza alcolica, causi un incidente stradale con compromissione grave dell’integrità fisica di un terzo, se non addirittura la sua morte. 11.– In conclusione, la sanzione accessoria della revoca della patente per la fattispecie di reato della guida in stato di ebbrezza, con tasso alcolemico superiore a 1,5 g/l, aggravata dall’aver provocato un incidente in ragione di tale stato di alterazione psico-fisica, costituisce misura non sproporzionata rispetto alla gravità intrinseca dell’illecito sanzionato dall’art. 186, comma 2-bis, cod. strada, nell’ambito di una previsione normativa che nel suo complesso, contemplando anche condotte meno gravi sanzionate in modo meno afflittivo, è sufficientemente graduata. Da ciò consegue la non fondatezza della questione. Per Questi Motivi LA CORTE COSTITUZIONALE 1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 186, comma 2-bis, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), sollevate, in riferimento agli artt. 13, 25, secondo comma, e 27, primo e terzo comma, della Costituzione, dalla Corte d’appello di Milano, sezione prima penale, con l’ordinanza indicata in epigrafe; 2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 186, comma 2-bis, cod. strada, sollevata, in riferimento all’art. 3 Cost., dalla Corte d’appello di Milano, sezione prima penale, con l’ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 settembre 2023. F.to: Silvana SCIARRA, Presidente Giovanni AMOROSO, Redattore Valeria EMMA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 27 ottobre 2023 Il Cancelliere F.to: Valeria EMMA […] Read more…
02/09/2023Con sentenza n. 1659/2021 pubbl. il 09/11/2021 “la Corte di Appello di L’Aquila, riunita in camera di consiglio, composta da Dott. Silvia Rita Fabrizio Presidente Dott. Elvira Buzzelli Consigliere rel. est. Dott. Francesco Filocamo Consigliere Ha pronunciato la seguente SENTENZA Nella causa civile di appello iscritta al n. 295/2020 R.G., promossa da ###, in persona del legale rappresentante pro tempore, Rappresentata e difesa, congiuntamente e/o disgiuntamente, dagli Avv.ti ###, ### e ###, Appellante Nei confronti di ###, Rappresentato e difeso dall’Avv. ###, Appellato OGGETTO: azione di risarcimento del danno non patrimoniale. CONCLUSIONI DELLE PARTI: per l’appellante: “…in via principale: riformare l’Ordinanza per i motivi esposti in narrativa e, per l’effetto, rigettare integralmente tutte le domande dell’Appellato; in via subordinata: riformare l’Ordinanza, determinando che i danni asseritamente subiti dall’Appellato ammontano a zero ovvero a una cifra inferiore a quella liquidata nell’Ordinanza e, per l’effetto, rigettare parzialmente le domande dell’Appellato; in ogni caso: revocare l’obbligo di ### di pagare le spese legali sostenute dall’Appellato in relazione al procedimento di primo grado, inclusi IVA e CPA, e condannare l’Appellato al relativo rimborso nonché al pagamento di spese, competenze e onorari del presente grado di appello, oltre a spese generali, IVA e CPA come per legge.”. Per l’appellato: “…ogni contraria istanza disattesa, respingere l’avversa domanda, in quanto inammissibile e comunque destituita di alcun fondamento in punto di fatto e di diritto, con vittoria delle spese di lite.”. FATTO E DIRITTO Con ordinanza pubblicata in data 29/01/2020, il Tribunale di Chieti accoglieva il ricorso ex art 702 bis c.p.c. con il quale il Sig. ### aveva domandato la condanna di ### al risarcimento di € 15.000,00 a titolo di danno non patrimoniale, sotto forma di danno morale nella sua veste di danno relazionale, per la violazione e l’erronea applicazione degli “standard della comunità” previsti dal social network, in violazione dei suoi diritti costituzionalmente garantiti di espressione e di manifestazione del pensiero. Il ricorrente deduceva di essere “utente” del noto social network “###” sin dall’anno 2010 ed in particolare allegava che 1) in data ### aveva pubblicato sul suo profilo una fotografia ritraente Benito Mussolini nel giorno del compleanno, accompagnata da una didascalia e poche ore dopo si era visto notificare sulla suddetta piattaforma un avviso di rimozione della fotografia pubblicata, poiché considerata non rispettosa dei cd. standard della comunità, con conseguente sospensione dell’utilizzo del suo account per la durata di trenta giorni; 2) in data ###, l’amministrazione del social network comunicava al Sig. ###, una nuova sospensione dell’utilizzo dell’account per tre giorni, per la pubblicazione di un’immagine della bandiera della Repubblica Sociale Italiana, rimossa poiché, anch’essa, ritenuta in violazione dei cd. standard della comunità. 3) pochi giorni dopo l’avviso del ###, il Sig. ### aveva ricevuto un terzo avviso con il quale ### comunicava la rimozione, sempre per violazione dei cd. standard della comunità, di un’altra fotografia che riproduceva il Monte Giano, sul quale, nel 1939, era stata riprodotta la scritta “DUX”, attraverso la potatura di una pineta; 4) in data ###, il ### riceveva un avviso di sospensione dell’account per ulteriori trenta giorni, per aver pubblicato, nella pagina intitolata “Una Bologna peggiore è possibile?”, un commento (rivolto ad un terzo soggetto) che non avrebbe rispettato i cd. standard della comunità in tema di bullismo ed intimidazione. 5) in data ###, il Sig. ### riceveva avviso di ulteriori trenta giorni di sospensione dell’account per aver pubblicato un post contenente l’immagine di un pilota di guerra, corredata da una didascalia descrittiva della sua tragica morte. 6) Durante i predetti ultimi trenta giorni di sospensione, il Sig. ### riceveva altra comunicazione di rimozione di altri due post per violazione dei cd. standard della comunità. 7) in data ###, veniva comunicato al ### un’ulteriore sospensione di trenta giorni per aver pubblicato, nel 2014, un’immagine ritraente Benito Mussolini con annessa didascalia “W Mussolini”. Sulla base di tali elementi di fatto e di diritto il ricorrente aveva denunciato l’illiceità della condotta della società convenuta tale da giustificare un risarcimento per danno morale, sotto due profili: A) illegittima sospensione dell’account ### per oltre quattro mesi, in un arco temporale di quattordici mesi complessivi, in violazione del diritto costituzionalmente garantito della libertà d’espressione; B) violazione dell’art. 617 sexies c.p. (Falsificazione, alterazione o soppressione del contenuto di comunicazioni informatiche o telematiche) per avere la società convenuta creato un pregiudizio, interrompendo diverse sue comunicazioni con la illegittima sospensione dell’utenza, con ciò impedendo le sue abituali relazioni sociali sulla piattaforma informatica. 2. Si era costituita in giudizio la ###, contestando tutto quanto dedotto ex adverso, insistendo per il rigetto della domanda ed esperendo altresì eccezione riconvenzionale di inadempimento contrattuale. 3. Il Tribunale adito aveva accolto integralmente le domande attoree, condannando la società convenuta al pagamento di € 15.000,00 a titolo di risarcimento del danno, oltre interessi legali dalla domanda al saldo e alla refusione, in favore di parte attrice, delle spese di lite. In primo luogo, l’azione era qualificata come di origine contrattuale. Il Giudice aveva posto a fondamento della decisione le seguenti considerazioni: – l’ordinamento democratico della Repubblica italiana rifiuta ogni ideologia contraria alla carta fondamentale, la quale, in particolare, alla XII disposizione transitoria e finale vieta “la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista.”; – la cd. legge Scelba del 1952 aveva dato attuazione al detto principio costituzionale; – sulla suddetta normativa, si era formato un orientamento giurisprudenziale secondo il quale, sulla base del combinato disposto tra la XII disposizione transitoria e finale e l’art. 21 della Costituzione, le condotte apologetiche, per divenire illecite, devono concretarsi in comportamenti fattivi di pericolo (quest’ultimo inteso come probabilità del verificarsi dell’evento dannoso) di ricostituzione del partito fascista. Posto ciò, sotto un primo profilo, in riferimento alle quattro condotte relative all’espressione di un pensiero di adesione all’ideologia fascista, il primo Giudice ha motivato l’accoglimento della domanda attorea affermando che, affinché possa essere posta a base di un giudizio di inadempimento contrattuale, senza tuttavia violare il diritto fondamentale alla libera manifestazione del pensiero, la condotta dell’utente de quo, avrebbe dovuto concretizzarsi in iniziative fattive volte a supportare ed elogiare l’ideologia fascista, in una logica di espansione del consenso, utile a concretizzare il pericolo di una sua riaffermazione. Il giudicante ha invece ravvisato nelle condotte di parte ricorrente la semplice espressione delle proprie convinzioni, pur improntate a dette ideologie, in una logica di dialettica e confronto. Di conseguenza, le condotte oggetto di causa non potevano, secondo il Tribunale, concretare la violazione degli standard, come eccepito dalla società convenuta, concretandosi nel mero esercizio del diritto costituzionale di libertà di manifestazione del pensiero. Sotto un altro profilo (in relazione alla condotta sopra richiamata al punto 4), il primo Giudice riteneva che anche questa ultima non si poneva in violazione degli standard della comunità ma, tutt’al più, esprimeva un pensiero con un tono fortemente polemico. In conclusione, il Tribunale, accertando l’inadempimento contrattuale di parte resistente, condannava ###, a pagare al Sig. ### € 15.000,00 a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale, la cui liquidazione veniva effettuata equitativamente sulla base del fatto che: – le condotte di inadempimento erano reiterate; – la durata complessiva dell’inadempimento ammontava ad oltre 4 mesi, corrispondenti al periodo di sospensione forzata dell’account del ###; – gli altri utenti con cui il ### condivideva la piattaforma sociale erano circa 2.500; – nell’ordinamento italiano è fatto divieto alla liquidazione dei cd. danni puntivi. Infine, alla condanna alle spese di parte resistente secondo il principio di soccombenza, è stata applicata dal Tribunale la maggiorazione prevista dall’art. 4, comma 8 del D.M. 55/2014. 4. Avverso la predetta ordinanza, proponeva appello la ###, chiedendo l’accoglimento delle conclusioni trascritte in epigrafe. 5. Resisteva l’appellata, chiedendo il rigetto dell’appello come da conclusioni trascritte in epigrafe. 6. Le parti precisavano le conclusioni all’udienza del 24/03/2021, tenutasi con trattazione scritta ai sensi e per gli effetti dell’art. 221, IV comma, l. 77/2020; quindi, la Corte, decorsi i termini assegnati ex art. 190 c.p.c. (concessi nella misura ordinaria, 60+20), riservava la causa a sentenza. 8. Posto ciò, l’appello proposto dalla ### è parzialmente fondato, nei limiti e per le ragioni che di seguito si espongono. 8.1.Preliminarmente, occorre interrogarsi sulla legge applicabile, trattandosi di un rapporto contrattuale in cui l’utente – consumatore è cittadino italiano mentre il fornitore del servizio è società con sede in Irlanda, cosicché il contratto è certamente caratterizzato da profili di internazionalità. Trattandosi di un rapporto tra soggetti giuridici facenti parte dell’Unione europea, questa corte ritiene debba farsi riferimento al Reg. 593/2008 sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali (Roma I), che all’art. 6 c.1 individua quale legge applicabile quella del Paese ove il consumatore ha la residenza abituale (cfr. anche il regolamento UE n. 1215/2012, detto «Bruxelles I»). Anche in tema di giurisdizione tali atti normativi prevedono che il consumatore possa essere convenuto solo dinanzi all’autorità giudiziaria dello stato in cui domicilia, mentre quando sia il consumatore ad agire in giudizio gli è riconosciuta la facoltà di scegliere la giurisdizione competente. Nel confermarsi dunque la sicura sussistenza della giurisdizione italiana, va ritenuta l’applicabilità al caso della legge italiana. 8.2.Ciò posto, sempre in via preliminare, allo scopo di impostare correttamente l’esame delle censure proposte, va esplicitato l’inquadramento e la qualificazione giuridica della fattispecie, ricondotta dal primo giudice all’alveo della responsabilità contrattuale. Tale impostazione va certamente condivisa, sebbene si ritenga necessario prendere posizione sulle specifiche caratteristiche del contratto. Una volta affermato che siamo certamente in ambito negoziale ed in tema di responsabilità contrattuale, deve anzitutto ammettersi si tratti di un contratto per adesione, stipulato mediante il ricorso a moduli on line predisposti unilateralmente dal fornitore, le cui clausole, quindi, dovendosi applicare la legge italiana, essendo «…inserite nelle condizioni generali di contratto, o in moduli o formulari predisposti da uno dei contraenti, si interpretano, nel dubbio, a favore dell’altro» (art. 1370 c.c.) . 8.3.Altro elemento del contratto che occorrerà verificare ai fini di una corretta valutazione delle prestazioni poste a carico delle parti e dei poteri che negozialmente sono riservati a ### a tutela della regolarità del servizio e di un corretto uso della piattaforma da parte dei fruitori (e, in ultima analisi, per la valutazione della sussistenza e della gravità degli inadempimenti che le parti reciprocamente si addebitano) è se si tratti di contratto a titolo gratuito, come sostenuto dalla convenuta appellante, oppure a titolo oneroso. A tale riguardo, conviene anzitutto esaminare quanto risulta nell’incipit della pagina online che descrive oggi le Condizioni d’uso, che di seguito si trascrive: «Anziché richiedere all’utente un pagamento per l’utilizzo di ### o degli altri prodotti e servizi coperti dalle presenti Condizioni, ### riceve una remunerazione da parte di aziende e organizzazioni per mostrare agli utenti inserzioni relative ai loro prodotti e servizi. Utilizzando i Prodotti di ###, l’utente accetta che ### possa mostrargli inserzioni che ### ritiene pertinenti per l’utente e per i suoi interessi. ### usa i dati personali dell’utente per aiutare a determinare quali inserzioni mostrare all’utente. ### non vende dati personali dell’utente agli inserzionisti e non condivide informazioni che identificano direttamente dell’utente (informazioni come il nome, l’indirizzo e-mail o altre informazioni di contatto dell’utente) con gli inserzionisti senza l’autorizzazione specifica dell’utente. Al contrario, gli inserzionisti possono indicare a ### elementi come il tipo di pubblico di destinazione delle proprie inserzioni e ### mostrerà tali inserzioni agli utenti che potrebbero essere interessati. ### fornisce agli inserzionisti report sulle prestazioni delle proprie inserzioni per consentire loro di comprendere in che modo gli utenti interagiscono con i loro contenuti.». L’adesione dell’utente comporta quindi il sorgere di obbligazioni corrispettive, che, semplificando, dal lato dell’utente vanno individuate nella concessione a ### della facoltà d’uso dei dati personali (con le limitazioni sopra specificate ed oggetto di analisi, in altre sedi e sotto altri profili, che qui non rilevano) e, dal lato del gestore, nella messa a disposizione di strumenti che consentono agli utenti di connettersi fra di loro, creare community e far crescere aziende (vds. condizioni d’uso). Il punto essenziale da valutare è se la concessione della facoltà d’uso dei dati personali possa essere considerato alla stregua di un corrispettivo che, pur non avendo un contenuto patrimoniale immediatamente percepibile, costituisca il tassello fondamentale nella politica dell’impresa per attrarre il maggior numero di inserzionisti e realizzare lo scopo di impresa. Riguardo a tali concetti, è utile far riferimento ai principi espressi di recente nella sentenza emessa dalla sesta sezione del Consiglio di Stato, n. 2631, del 29 marzo 2021. Oggetto del giudizio era la legittimità del provvedimento con cui l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato aveva sanzionato ###, contestandole una pratica commerciale scorretta, ai sensi degli art. 21 e 22 del Codice del consumo, individuata in un’informativa poco chiara ed incompleta, in merito all’attività di raccolta e utilizzo, a fini commerciali, dei dati degli utenti. In particolare, era – fra l’altro – proprio la dicitura allora presente (ed ora modificata, proprio in virtù di questo intervento), “Iscriviti! È gratis e lo sarà per sempre”, che immediatamente appariva all’utente quando decideva di procedere alla sua registrazione, ad essere stata ritenuta scorretta, in quanto evocava appunto impropriamente la gratuità della prestazione, senza informare l’utente che, invece, ### avrebbe fatto uso per propri interessi verso terzi, per fini commerciali, dei dati personali degli utenti acquisiti al momento dell’iscrizione. Il Consiglio di Stato, confermando sul punto la sentenza di primo grado (T.A.R. Lazio, I, sent. n. 260/2020, citata dall’appellato), ha ritenuto legittimo il provvedimento sanzionatorio adottato dal Garante, sostenendo che all’assenza della corresponsione di una somma di denaro non conseguisse necessariamente una valutazione di gratuità della controprestazione. Il principio giuridico espresso valorizza, a ben vedere, il profilo patrimoniale della prestazione richiesta all’utente ampliandone la valutazione, in funzione dell’evoluzione della tecnologia e delle nuove scelte imprenditoriali che la pratica commerciale propone – evidentemente ritenute meritevoli di tutela giuridica – e, in tale ottica, giunge a considerare la facoltà d’uso dei dati personali concessa dall’utente al social network alla stregua di una controprestazione a contenuto patrimoniale. In questo quadro, sviluppandosi i principi affermati dal Consiglio di Stato, questo collegio ritiene di condividere l’affermazione che il contenuto patrimoniale di una prestazione possa ritenersi sussistente anche in quei casi in cui vengano ceduti, a titolo di corrispettivo per un servizio, beni diversi dal denaro che, per la loro potenzialità di sfruttamento commerciale, divengano suscettibili di una valutazione in chiave economico – patrimoniale. È, in sostanza, l’idoneità intrinseca del dato personale – legittimamente acquisito e trattato, s’intende, il che dovrà essere sempre attentamente valutato – a dover essere considerata, in quel determinato contesto, oggetto di proficuo sfruttamento commerciale, così consentendo di ritenere integrato il requisito della patrimonialità della controprestazione (volendo richiamare analogicamente un contratto tipico, questo schema richiama, a ben vedere, la permuta). Del resto, va ricordata in questo contesto la Direttiva 2019/770/UE (solo come elemento che rafforza il convincimento espresso, in quanto essa è successiva ai fatti di causa e non ancora vigente) perché essa esprime principi pienamente coerenti con questa prospettiva interpretativa; tale direttiva – proprio allo scopo di regolare il fenomeno in esame oramai diffusissimo – è andata ad esplicitare i principi immanenti alla disciplina contrattuale all’esame, chiarendo in modo non equivoco che «il trasferimento di dati personali costituisce corrispettivo del contratto di fornitura di contenuti o servizi digitali e, dunque, è un’obbligazione assimilabile al pagamento del prezzo» (la direttiva 2019/770, che sarà in vigore dal gennaio 2022, si applica ai casi “in cui l’operatore economico fornisce o si impegna a fornire contenuto digitale o un servizio digitale al consumatore e il consumatore fornisce o si impegna a fornire dati personali all’operatore economico, fatto salvo il caso in cui i dati personali forniti dal consumatore siano trattati esclusivamente dall’operatore economico ai fini della fornitura del contenuto digitale o del servizio digitale a norma della presente direttiva o per consentire l’assolvimento degli obblighi di legge cui è soggetto l’operatore economico e quest’ultimo non tratti tali dati per scopi diversi da quelli previsti” (art. 3, par. 1). Ivi è anche affrontato, forse debolmente, il paradosso sotteso a questa impostazione – al quale è utile fare un doveroso accenno – laddove si prospetta il rischio che i dati personali, la cui protezione è considerata un diritto fondamentale dell’uomo, possano finire con l’essere considerati una merce di scambio, prevedendo la necessità di «garantire rimedi contrattuali ai consumatori, nell’ambito di tali modelli commerciali» (considerato 24). 8.4. Chiarito che il contratto è a titolo oneroso e a prestazioni corrispettive, sarà necessario ricordare che, come a tutti è noto, il contraente a titolo gratuito sia in genere tutelato con minor forza rispetto a colui che stipula a titolo oneroso (cfr. ad esempio, nella disciplina della compravendita gli artt. 1490, 1491 , 1492 , 1493 , 1494 , 1495 e 1496 c.c., rispetto a quella della donazione in cui il disponente, a meno che non sia in dolo, non risponde dei vizi dei quali sia affetta la cosa donata ex art. 798 c.c. o ancora al grado di tutela dell’acquirente con riferimento ai rimedi apprestati per le ipotesi di patologie del negozio). 8.5. Prima di chiudere su questo punto, giova chiarire come nella specie la clausola contrattuale che attribuisce a ### poteri di rimozione dei post e di sospensione degli account non possa essere ritenuta nulla. Al riguardo, l’appellato, ha riproposto le questioni di nullità della clausola nell’atto di costituzione e risposta (art. 346 c.p.c.) sia sotto il profilo codicistico che sotto il profilo della tutela consumeristica. A favore della natura non vessatoria della clausola reputa la Corte debba, sì, prendersi in considerazione la natura del contratto (per adesione) e la sua onerosità, ma debba anche valutarsi A) come l’adesione al contratto e il conseguente uso della piattaforma da parte degli utenti abbia ad oggetto la fruizione di un servizio non certo essenziale; B) che – sebbene in determinati ambiti e condizioni il profilo dell’utente possa restare noto solo ad una ristretta cerchia di persone (come pone in evidenza, in particolare, l’appellato) – ciò che si scrive è però sempre veicolato all’esterno da un soggetto giuridico diverso dall’autore di quelle espressioni, che è appunto ###; tali peculiarità consentono di ritenere non priva di ragionevolezza (ed anzi posta a tutela del sinallagma) la previsione in capo al proprietario e gestore del social network sul quale si manifestano le varie personali opinioni o si condividono contenuti del diritto di verificare che ciò avvenga nel rispetto dei valori condivisi posti alla base dell’adesione, chiarendosi come il successivo controllo giurisdizionale in ordine all’esercizio in concreto del potere di autotutela debba certamente essere volto alla verifica del rigoroso rispetto dei diritti delle parti, onde evitare abusi (cfr. del resto, i principi espressi, tra le altre, in cass. Sez. VI, 3 settembre 2015 n. 17579, in ambito diverso, trattandosi di un contratto di noleggio di apparecchiature da gioco, in cui comunque è stato negato il carattere vessatorio alla clausola che stabiliva in un quinquennio la durata del contratto senza possibilità di recesso anticipato, pur inserita in condizioni generali di contratto, non espressamente sottoscritta né oggetto di specifica contrattazione tra le parti). Facendo dunque applicazione dei principi di diritto espressi dalla suprema corte, deve affermarsi come la clausola mediante la quale – come nel presente caso – è attribuita ad una delle parti la facoltà di sospensione della prestazione in caso di inadempimento della controparte non rientri tra le clausole particolarmente onerose, essendo anzi assimilabile all’eccezione di inadempimento (non attribuisce cioè un potere unilaterale insindacabile di sospensione dell’esecuzione). Essa quindi non può considerarsi vessatoria perché non rientra tra le clausole che pongono in capo all’aderente «limitazioni alla facoltà di opporre eccezioni, restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti con i terzi, tacita proroga o rinnovazione del contratto» (art. 1341 c.2 c.c.), ma afferisce alla normale regolamentazione del contratto e non impedisce di sollevare le eccezioni che, in un contratto individuale, potrebbero proporsi (cfr. cass. ult. cit.). L’eccezione di nullità della clausola, come riproposta dall’appellato, deve dunque essere respinta. 9. Sulla base di quanto osservato, prima di procedere all’esame specifico delle censure mosse va, riassumendo, anzitutto esclusa la fondatezza della premessa posta dall’appellante a fondamento della sua ricostruzione critica, che, cioè, il contratto possa tout court definirsi a titolo gratuito (vds punto 8, supra). Va anche sottolineato come tra le parti sia intercorsa una regolamentazione contrattuale mediante il ricorso alla tipologia del contratto per adesione, nel cui ambito il contraente ha accettato, tra le altre, anche l’art. 1 delle Condizioni, che – nella sezione Lotta ai comportamenti dannosi, protezione e supporto della community di ### – statuisce che: «Le persone creano community su ### solo se si sentono al sicuro. ### impiega team dedicati in tutto il mondo e sviluppa sistemi tecnici avanzati per rilevare usi impropri dei propri Prodotti, comportamenti dannosi nei confronti di altri e situazioni in cui potrebbe essere in grado di aiutare a supportare o proteggere la propria community. In caso di segnalazione di contenuti o condotte di questo tipo, ### adotta misure idonee, ad esempio offrendo aiuto, rimuovendo contenuti, bloccando l’accesso a determinate funzioni, disabilitando un account o contattando le forze dell’ordine». In tale contesto ed a tal fine, sottolinea l’appellante, «l’art. 3.2 delle Condizioni, rubricato “Elementi condivisibili e condotte autorizzate su ###”, meglio dettaglia i criteri per la valutazione dei comportamenti non tollerati: «### desidera che i propri utenti possano esprimersi e condividere contenuti per loro importanti, ma senza pregiudicare la sicurezza e il benessere degli altri o l’integrità della propria community. Pertanto, l’utente accetta di non adottare le condotte descritte qui sotto (o di agevolare o supportare altri ad adottarle): L’utente non può usare i Prodotti per adottare condotte o condividere contenuti: Contrari alle Condizioni, agli Standard della community e ad altre condizioni e normative applicabili all’uso di ### da parte dell’utente. • Contrari alla legge, ingannevoli, discriminatori o fraudolenti. • Contrari o in violazione dei diritti di altri utenti, compresi i loro diritti di proprietà intellettuale. ### può rimuovere o bloccare i contenuti che violano tali disposizioni…». Tale clausola, sulla base dei fatti allegati, è da ritenersi validamente pattuita in quanto appare posta a salvaguardia del sinallagma contrattuale, cioè dell’equilibrio tra la possibilità per l’utente di esprimersi e condividere contenuti ritenuti importanti e il pregiudizio che determinate modalità espressive o determinati contenuti possano arrecare alla sicurezza e al benessere altrui o all’integrità della stessa community; il che è come dire che quelle modalità espressive sono accettate nella misura in cui non finiscano con il divenire un attentato alla sicurezza e al benessere di altri utenti e/o all’integrità dei valori della stessa community. La violazione dei criteri di equilibrio sopra descritti, che sono sostanzialmente regole di convivenza civile, può ben dunque essere valutata alla stregua di un inadempimento contrattuale che, ove esistente, abilita la controparte a sospendere la propria prestazione, rimuovendo o bloccando i contenuti che violino tali disposizioni contrattuali. La valutazione, ritiene questa corte, deve essere condotta in sede giurisdizionale con particolare rigore ed attenzione e con riferimento ad ogni singolo episodio, posto che, se, da un lato, il fatto che la piattaforma sulla quale si opera, pur presentando profili che possono gestirsi come privati, resti comunque di proprietà della società giustifica l’attribuzione dei poteri di autotutela riconosciuta contrattualmente (a livello di immagine pubblica, infatti, la società vede ripercuotersi sulla propria sfera di interessi le conseguenze che gli utenti determinano attraverso le proprie iniziative all’interno della community); d’altro canto, l’esercizio in concreto di tali poteri non deve sfociare in comportamenti apertamente violativi della sfera di libertà espressiva che, dietro concessione dell’autorizzazione all’uso di propri dati sensibili e non gratuitamente, costituisce il contenuto tipico e, per così dire, la ragion d’essere dell’adesione ad una piattaforma di questo tipo, la cui funzione è appunto quella di consentire agli utenti di esprimersi e condividere contenuti per loro importanti. Tanto più in un contesto nel quale non è neppure specificato con quali modalità si formuli il giudizio di congruità dell’espressione usata da parte di ###. 9.2. Passando ora all’esame dei motivi d’appello, si ribadisce come lo stesso sia in parte fondato. Con il primo motivo di appello, la ###, ha denunciato l’erroneità della statuizione di primo grado, nella parte in cui ha omesso di applicare le condizioni e gli standard della comunità al rapporto oggetto di controversia, sostituendo la legislazione vigente alla volontà delle parti, in violazione del principio dell’autonomia privata ai sensi dell’art. 1322 c.c., valutando i contenuti pubblicati sulla piattaforma dal Sig. ### esclusivamente alla luce della normativa sull’apologia del fascismo. La censura può dirsi in astratto fondata, ma a ben vedere non è idonea a comportare l’integrale riforma della sentenza impugnata. Si è detto infatti della necessità di ricostruire la fattispecie alla luce della disciplina contrattuale, che proprio allo scopo è stata sopra analizzata. Tale analisi, se consente di riportare alla volontà delle parti il codice di autodisciplina sopra illustrato, obbliga a considerare come siano soggetti a tale codice non solo i comportamenti «contrari alle Condizioni, agli Standard della community e ad altre condizioni e normative applicabili all’uso di ### da parte dell’utente», ma anche quei comportamenti «Contrari alla legge, ingannevoli, discriminatori o fraudolenti…. Contrari o in violazione dei diritti di altri utenti, compresi i loro diritti di proprietà intellettuale…». Ora, fermo restando come secondo questa Corte resta prioritario in caso di comportamenti illeciti la segnalazione all’autorità di pubblica sicurezza, di certo il contratto autorizza anche l’adozione di iniziative di sospensione ed altro, alle condizioni sopra analizzate. È corretto dunque sostenere che a legittimare l’esercizio di poteri di autotutela possa essere non solo il comportamento contrario alla legge (certamente rilevante, giusta l’espresso richiamo contrattuale) – e dunque ad esempio quel comportamento che integri, in ipotesi, il reato di apologia del fascismo – ma anche un comportamento diverso, non definibile come illecito. Del resto, è bene qui chiarirlo espressamente, che i comportamenti delineati dalla XII disposizione transitoria della Costituzione e dalla legge l. 20 giugno 1952, n. 645 costituiscano altrettante limitazioni dell’esercizio del diritto di manifestazione del pensiero in Italia è a tutti noto e ciò non potrebbe certo essere posto in discussione da una diversa regolamentazione contrattuale. A tal fine è bene qui ricordare che in base alla legislazione vigente «Ai fini della XII disposizione transitoria e finale (comma primo) della Costituzione, si ha riorganizzazione del disciolto partito fascista quando una associazione, un movimento o comunque un gruppo di persone non inferiore a cinque persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza, o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attività alla esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del predetto partito o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista» (art. 1). 9.3. Ciò chiarito in ordine a questo primo profilo di censura, gli altri motivi d’appello che di seguito si illustrano, possono essere congiuntamente esaminati e, come si diceva, si rivelano in parte fondati. Con il secondo motivo, la società appellante ha censurato l’ordinanza del Tribunale laddove aveva «omesso di accertare che i contenuti pubblicati dal Sig. ### violavano gli standard della Comunità e che, di conseguenza, la società appellante aveva agito legittimamente rimuovendoli e sospendendo temporaneamente l’utenza, poiché le condizioni e gli standard della comunità prevedono la creazione di un ambiente di rispetto reciproco fra gli utenti, nell’ottica di una policy che vieta i gruppi e le organizzazioni che incitano all’odio. In particolare, l’appellante sottolineava il fatto che l’appellato aveva pubblicato diversi contenuti in supporto dell’ideologia fascista e, così facendo, aveva violato il divieto di esprimere supporto nei confronti di organizzazioni che incitano all’odio ai sensi degli standard della comunità». Con un terzo motivo d’appello, ### ha denunciato il contenuto dell’ordinanza nella parte in cui ha omesso di accertare il danno causato dalla condotta del ### il quale aveva pubblicato un commento, rivolto ad un soggetto terzo, nella pagina intitolata “Una Bologna peggiore è possibile?” in violazione dei cd. standard della comunità in tema di bullismo ed intimidazione ai sensi dell’art. 9, in base al quale: «…Per quanto riguarda i privati, la protezione offerta è superiore: rimuoviamo i contenuti pubblicati con l’intento di denigrare o imbarazzare una persona…». Con un quarto motivo, la società appellante si duole dell’erroneo riconoscimento da parte del Tribunale della sussistenza dei danni non patrimoniali lamentati dal Sig. ###, dal momento che, quest’ultimo, non ha dato prova dei danni lamentati, per il riconoscimento dei quali, ai sensi dell’art. 2697 c.c., la legge richiede che, chi agisce per il risarcimento del danno deve fornire prova rigorosa e dettagliata dei fatti posti a fondamento della domanda. Con il quinto ed ultimo motivo di appello, ### si duole, in ogni caso, dell’entità, da ritenersi eccessiva, dell’importo liquidato a titolo risarcitorio dal primo giudice, per complessivi € 15.000,00, ritenuta dall’appellante illogica ed eccessivamente generosa, considerando che tale cifra «… corrisponde quasi al reddito medio annuale degli italiani; … seguendo, in via esemplificativa, la liquidazione del danno non patrimoniale operata dalle Tabelle di Milano, quella cifra verrebbe riconosciuta ad un giovane di trent’anni per gravi lesioni psicofisiche che comportano 8 giorni di inabilità…» Pertanto, invocava in caso di accoglimento della domanda la riduzione della misura del risarcimento entro la misura massima di € 5.000,00. 9.4. L’esame del secondo e terzo motivo, da svolgersi congiuntamente, richiede l’analisi delle singole condotte (costituenti secondo FB altrettanti inadempimenti, sanzionati con il legittimo. 9.3. Ciò chiarito in ordine a questo primo profilo di censura, gli altri motivi d’appello che di seguito si illustrano, possono essere congiuntamente esaminati e, come si diceva, si rivelano in parte fondati. Con il secondo motivo, la società appellante ha censurato l’ordinanza del Tribunale laddove aveva «omesso di accertare che i contenuti pubblicati dal Sig. ### violavano gli standard della Comunità e che, di conseguenza, la società appellante aveva agito legittimamente rimuovendoli e sospendendo temporaneamente l’utenza, poiché le condizioni e gli standard della comunità prevedono la creazione di un ambiente di rispetto reciproco fra gli utenti, nell’ottica di una policy che vieta i gruppi e le organizzazioni che incitano all’odio. In particolare, l’appellante sottolineava il fatto che l’appellato aveva pubblicato diversi contenuti in supporto dell’ideologia fascista e, così facendo, aveva violato il divieto di esprimere supporto nei confronti di organizzazioni che incitano all’odio ai sensi degli standard della comunità». Con un terzo motivo d’appello, ### ha denunciato il contenuto dell’ordinanza nella parte in cui ha omesso di accertare il danno causato dalla condotta del ### il quale aveva pubblicato un commento, rivolto ad un soggetto terzo, nella pagina intitolata “Una Bologna peggiore è possibile?” in violazione dei cd. standard della comunità in tema di bullismo ed intimidazione ai sensi dell’art. 9, in base al quale: «…Per quanto riguarda i privati, la protezione offerta è superiore: rimuoviamo i contenuti pubblicati con l’intento di denigrare o imbarazzare una persona…». Con un quarto motivo, la società appellante si duole dell’erroneo riconoscimento da parte del Tribunale della sussistenza dei danni non patrimoniali lamentati dal Sig. ###, dal momento che, quest’ultimo, non ha dato prova dei danni lamentati, per il riconoscimento dei quali, ai sensi dell’art. 2697 c.c., la legge richiede che, chi agisce per il risarcimento del danno deve fornire prova rigorosa e dettagliata dei fatti posti a fondamento della domanda. Con il quinto ed ultimo motivo di appello, ### si duole, in ogni caso, dell’entità, da ritenersi eccessiva, dell’importo liquidato a titolo risarcitorio dal primo giudice, per complessivi € 15.000,00, ritenuta dall’appellante illogica ed eccessivamente generosa, considerando che tale cifra «… corrisponde quasi al reddito medio annuale degli italiani; … seguendo, in via esemplificativa, la liquidazione del danno non patrimoniale operata dalle Tabelle di Milano, quella cifra verrebbe riconosciuta ad un giovane di trent’anni per gravi lesioni psicofisiche che comportano 8 giorni di inabilità…» Pertanto, invocava in caso di accoglimento della domanda la riduzione della misura del risarcimento entro la misura massima di € 5.000,00. 9.4. L’esame del secondo e terzo motivo, da svolgersi congiuntamente, richiede l’analisi delle singole condotte (costituenti secondo FB altrettanti inadempimenti, sanzionati con il legittimo esercizio di quei poteri di autotutela). A tale riguardo, deve osservarsi che «il 28 luglio 2018 l’Appellato ha pubblicato una foto di Mussolini celebrativa del 135° anno della nascita ed elogiandone le “gesta”. Nel post di accompagnamento alla foto, l’appellato ha poi scritto quanto segue: «Oggi vorrei ricordare che se fosse passata la proposta di legge di un certo Fiano, scrivere – in realtà un grido che viene dal cuore – VIVA MUSSOLINI! avrebbe comportato rischi di denunce e di processi. La proposta Fiano è diventata cacca sciolta, buona per i mosconi e gli scarafaggi. Mentre il nostro grido, che avremmo comunque lanciato, leggi o non leggi, è poesia e gioia. È amore per l’Italia. VIVA MUSSOLINI!». Ritiene la Corte che in questa ipotesi, conformemente alla tesi espressa dall’appellante, il tono delle espressioni usate per esprimere il proprio dissenso dai contenuti della legge Fiano (che – ove definitivamente approvata – avrebbe introdotto l’art. 293-bis c.p. riguardante il reato di propaganda del partito fascista o nazista effettuata anche attraverso la produzione, la distribuzione o la vendita di beni che raffigurano persone o simboli ad essi chiaramente riferiti, ovvero attraverso il richiamo in pubblico della relativa simbologia e gestualità) sia certamente un tono gratuitamente offensivo che non trova alcuna giustificazione nel contesto del messaggio espresso dal ###. Se lo stesso non viola la legislazione vigente in tema di apologia del partito fascista, viola certamente quegli standard della comunità più volte richiamati che impegnano l’utente ad esprimere il proprio pensiero senza irridere o danneggiare l’immagine o l’idea altrui. Nella specie, invece, la metafora usata esprime in maniera estremamente offensiva un concetto che invece avrebbe ben potuto e dovuto essere espresso con rispetto. Questa corte ritiene pertanto condivisibile la valutazione effettuata dall’appellante, frutto di una corretta applicazione delle clausole contrattuali, posto che nella comparazione dei contrapposti interessi nella specie appare evidente come la metafora utilizzata non avesse altro scopo che quello di offendere un’iniziativa parlamentare non condivisa, senza veicolare a sua volta alcun pensiero significativo; essa, dunque, si apprezza come un’offesa puramente gratuita. Questa prima sospensione dell’account per 30 giorni non può dunque valutarsi illegittima, nell’economia dei rapporti contrattuali. Egualmente legittima va ritenuta l’iniziativa della società con riferimento all’episodio verificatosi l’11 febbraio 2019, quando l’appellato ha scritto un commento in risposta ad altro commento di un altro utente, in cui così si esprimeva: « è un provocatore che si diverte così – Lo lascerei al suo posto esattamente come lascerei nella toponomastica di molte città via Lenin, via Marx, via Tito etc etc; per dimostrare ai posteri la stupidità umana è rassicurante. Quando uno pensa di aver raggiunto l’abisso pensa che ci sono persone come e riacquista fiducia in sé». Ora, non è noto il tenore della conversazione, che nessuna delle parti ha ritenuto di riportare per intero. Letta quindi così come è, l’espressione appare certamente superare il limite di una rispettosa manifestazione del proprio dissenso, sostanziandosi nel definire stupido il proprio interlocutore, con espressione certamente tagliente (come lo stesso appellato riconosce), denigratorio e sprezzante, del tutto fuori misura perché priva di giustificazione per quella che appare essere una mera divergenza di vedute e di appartenenza politica. 9.5. In nessuno degli episodi successivi, invece, può ravvisarsi legittimo – sulla base, si ripete, della valutazione del tenore degli accordi negoziali – il ricorso da parte di ### alle iniziative repressive adottate, in quanto le espressioni utilizzate, nella valutazione dei contrapposti interessi come dedotti in contratto, appaiono tutte mere espressioni del pensiero; il che costituisce in ultima analisi, come più volte ribadito anche dall’appellante, la principale funzione di ### e la ragione stessa della proposta di adesione rivolta al pubblico degli utenti, quella cioè di consentire agli utenti di esprimersi e condividere contenuti per loro importanti. (vds. supra, 9.1). In tal senso è la valutazione di questa Corte con riferimento dunque ai seguenti quattro episodi: A) il 19 dicembre 2018, ### ha rimosso un contenuto che raffigurava la bandiera della Repubblica di Salò. Lamenta l’appellante che il ###, pur avendo ammesso tale circostanza, nel proprio ricorso non abbia riportato il testo completo della propria pubblicazione, che è il seguente: «Oggi è la giornata della bandiera italiana e questa è la mia bandiera. E non rompetemi gli zebedei colla storia delle origini massoniche perché questi colori sono stati anche i colori dell’Italia fascista e della Prima Repubblica, quindi sono anche i miei colori». B) pochi giorni dopo l’avviso del ###, il Sig. ### riceveva un terzo avviso con il quale ### comunicava la rimozione, sempre per violazione dei cd. standard della comunità, di un’altra fotografia che riproduceva il Monte Giano, sul quale, nel 1939, era stata riprodotta la scritta “DUX”, attraverso la potatura di una pineta; C) Il 7 maggio 2019, l’appellato ha pubblicato una foto di Adriano Visconti, maggiore della Seconda guerra mondiale, con la seguente didascalia: «Il maggiore Visconti e i suoi facevano parte di quei piloti che, aderendo alla RSI, difendevano le nostre città dai bombardamenti dei gangster volanti angloamericani». La mera pubblicazione della foto con un commento che si limita all’espressione del proprio pensiero, con minimi riferimenti rilevanti ai soli fini di dare un contesto al fatto non si ritiene siano sufficienti a violare gli standard della comunità. Anche in questo caso, la didascalia appare evocare un pensiero di mera appartenenza politica cosicché la comminata sospensione di 30 gg. appare di conseguenza a questa Corte non giustificata; D) Il ### è stato pubblicato un post – rimosso da FB, che ha comminato ance una sospensione di 30 giorni – raffigurante una foto di Mussolini con la descrizione “viva Mussolini”, che, secondo l’appellante, avrebbe dovuto intendersi come celebrazione di Mussolini e, per implicito, del regime fascista di cui è stato l’artefice, e così – per questa via – fondare un giudizio di espressione violativa del divieto di pubblicazione di contenuti raffiguranti forme d’odio organizzato. In tutti questi casi, le espressioni non travalicano la manifestazione di un’opinione che, a prescindere dalla sua condivisibilità (che non è un parametro contrattualmente assunto a criterio di giudizio) deve essere consentita ove fine a sé stessa. 10. Resta ora da valutare il danno, sia in ordine all’apprezzamento della sua sussistenza (IV motivo) che con riferimento alla sua entità (V motivo). In linea generale, sarà sufficiente rammentare che il danno non patrimoniale di cui è chiesto il ristoro, al di fuori dei casi determinati dalla legge, è ammesso quando venga accertata la lesione di un diritto inviolabile della persona riconosciuto dalla Costituzione. Di esso deve distinguersi una doppia dimensione, sub specie di danno – relazione, quale proiezione esterna dell’individuo e il danno morale quale sofferenza interna ed intima della persona (Cass. civ. Sez. III, Ord. 14-11-2017, n. 26805). Nella liquidazione di qualsiasi pregiudizio di natura non patrimoniale, cioè non suscettibile di valutazione economica, il giudice deve tener conto di tutte le conseguenze derivate dall’evento dannoso, nessuna esclusa, evitando di operare duplicazioni risarcitorie, ovvero attribuire nomi diversi a pregiudizi identici, cosicché, anche in presenza della lesione di diritti costituzionali inviolabili, non è ipotizzabile il risarcimento del danno non patrimoniale in mancanza della sussistenza di un concreto pregiudizio patito dal titolare dell’interesse leso, il quale deve essere allegato e provato e che oltretutto deve avere le caratteristiche della gravità e della non futilità (cfr. Cass. SS. UU. Sentenza 11 novembre 2008 n. 26972; Cass. sent. n. 349/16 del 13.01.2016; Cass. sent. n. 339/16 del 13.01.2016). 10.1. Nella specie, gli episodi descritti, nella misura in cui hanno rappresentato un’ingiustificata limitazione delle relazioni interpersonali e delle comunicazioni private dell’attore, conseguite a quattro illegittime azioni di rimozione di post e sospensioni temporanee del profilo dell’utente, rappresentano dunque comportamenti certamente idonei a produrre conseguenze dannose sia in termini di sofferenza interiore, che in termini di impedimento della possibilità di coltivare appunto quelle relazioni quotidiane costituenti manifestazione della personalità che avevano costituito la ragione stessa dell’adesione. Non ritiene la Corte che possa dunque ragionevolmente negarsi che sussista la prova di un danno morale sotto entrambi i profili della sofferenza interiore e del danno relazionale. Il quarto motivo d’appello è dunque infondato. 10.2. E’ invece in parte fondato il quinto motivo, con il quale ### deduce che a tutto voler concedere il risarcimento accordato sia comunque da ritenere eccessivo. Ora, nella valutazione dell’entità del risarcimento dovrà tenersi conto del fatto che due dei cinque episodi oggetto del giudizio sono stati ritenuti legittimi da questo giudice, cosicché evidentemente la misura del danno andrà parametrata alle tre sospensioni illegittime, valutandone sia la durata (circa tre mesi) sia il fatto che tale periodo di forzata assenza dell’attore dalla piattaforma non è stato continuativo, nonché tenendo conto che l’attore ha lamentato di non aver potuto coltivare le sue relazioni, limitandosi ad allegarne il numero complessivo (circa 2.500 persone), senza però specificare se e quante di queste relazioni temporaneamente sospese fossero significative sul piano dei rapporti interpersonali né la frequenza dei contatti temporaneamente perduti e non altrimenti coltivabili. Non può dunque essere seguito l’attore laddove lo stesso invita la Corte a parametrare il pregiudizio subito in € 400 per ogni giorno di sospensione, misura che appare disancorata da qualsiasi parametro di valutazione affidabile. In considerazione di tutti questi elementi, si ritiene di stimare, in via equitativa, il danno patito mediante la liquidazione all’attualità di un importo di € 3.000. 11. Ogni altra questione è assorbita. 12. Il parziale accoglimento dell’appello circoscrive e riduce il perimetro di fondatezza della domanda e giustifica sia per il primo che per il secondo grado la compensazione delle spese di lite. P.Q.M. La Corte d’Appello di L’Aquila, definitivamente pronunciando, in parziale riforma della sentenza impugnata, così provvede: 1) Condanna ### in persona di chi legalmente la rappresenta a corrispondere a ### la somma complessiva di € 3.000 a titolo di risarcimento del danno, oltre interessi dalla data della pubblicazione della sentenza al saldo; 2) Compensa le spese di lite di entrambi i gradi di giudizio. Così deciso nella camera di consiglio da remoto del 18/10/2021, su relazione del consigliere Buzzelli, estensore. Il Consigliere rel. est. Il Presidente Dott.ssa Elvira Buzzelli Dott.ssa Silvia R. Fabrizio”. […] Read more…
01/09/2023Con la “Sentenza 24 aprile 2020, n. 75 La Corte costituzionale composta dai signori: Presidente: Marta CARTABIA; Giudici : Aldo CAROSI, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 224-ter, comma 6, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), promosso dal Tribunale ordinario di Bergamo nel procedimento vertente tra M. T. e la Prefettura di Bergamo, con ordinanza dell’8 maggio 2019, iscritta al n. 215 del registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 49, prima serie speciale, dell’anno 2019. Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito il Giudice relatore Stefano Petitti nella camera di consiglio del 6 aprile 2020, svolta, ai sensi del decreto della Presidente della Corte del 24 marzo 2020, punto 1), lettera a); deliberato nella camera di consiglio del 7 aprile 2020. Ritenuto in fatto 1.– Con ordinanza dell’8 maggio 2019, il Tribunale ordinario di Bergamo ha sollevato questione incidentale di legittimità costituzionale dell’art. 224-ter, comma 6, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), aggiunto dall’art. 44 della legge 29 luglio 2010, n. 120 (Disposizioni in materia di sicurezza stradale), per contrasto con l’art. 3 della Costituzione. La norma censurata violerebbe il principio di ragionevolezza, «nella parte in cui non prevede che, in caso di estinzione del reato (di guida in stato di ebbrezza) a seguito di esito positivo della messa alla prova, il prefetto, anziché verificare la sussistenza delle condizioni di legge per l’applicazione della sanzione amministrativa accessoria della confisca, e procedere ai sensi dell’art. 231 , disponga restituzione del veicolo sequestrato all’avente diritto, ovvero nella parte in cui non prevede che, nel medesimo caso di estinzione del reato (di guida in stato di ebbrezza) a seguito di esito positivo della messa alla prova, il giudice civile, adito in sede di opposizione avverso il provvedimento del refetto che applica la sanzione amministrativa accessoria della confisca, disponga restituzione del veicolo sequestrato all’avente diritto». 1.1.– Il rimettente espone che M.T., fermato mentre conduceva il proprio veicolo in stato di ebbrezza, era stato tratto a giudizio penale innanzi al Tribunale di Bergamo, il quale, disposta la messa alla prova e successivamente constatatone l’esito positivo, aveva emesso sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato. M.T. aveva quindi chiesto la restituzione del mezzo sequestrato, ed invece il Prefetto di Bergamo ne aveva ordinato la confisca. L’opposizione avverso l’ordinanza di confisca era stata respinta dal Giudice di pace di Bergamo, la cui sentenza era stata da M. T. appellata nel giudizio a quo. 2.– Ad avviso del rimettente, l’autore del reato di guida in stato di ebbrezza subisce un’irragionevole e deteriore disparità di trattamento in ordine alla confisca del veicolo qualora il giudice penale abbia disposto nei suoi confronti la messa alla prova, anziché il lavoro di pubblica utilità di cui all’art. 186, comma 9-bis, cod. strada. Il giudice a quo osserva infatti che, nel caso di svolgimento positivo del lavoro di pubblica utilità, il giudice penale, dichiarata l’estinzione del reato, revoca la confisca del veicolo, a norma dell’art. 186, comma 9-bis, cod. strada, mentre, nel caso di esito positivo della messa alla prova, egli, dichiarata l’estinzione del reato, trasmette gli atti al prefetto, a norma dell’art. 224-ter cod. strada, affinché quest’ultimo, ove ricorrano le condizioni di legge, disponga la confisca del mezzo. Sarebbe irragionevole che lo svolgimento positivo del lavoro di pubblica utilità determini la revoca giudiziale della confisca, mentre l’esito positivo della messa alla prova lasci impregiudicata l’applicazione prefettizia della sanzione accessoria. Le «notevoli similitudini» tra i due istituti ne renderebbero illogica la diversità di disciplina in punto di confisca, tanto più che la disparità appesantisce il regime della messa alla prova, misura «già più afflittiva» rispetto all’altra, poiché essa esige, oltre alla prestazione di lavoro in favore della collettività, anche un’attività di riparazione del danno da reato e l’osservanza di un programma in affidamento al servizio sociale. 2.1.– Il giudice a quo correla la rilevanza della questione all’impossibilità di definire l’appello di cui è investito senza la previa verifica di legittimità costituzionale dell’art. 224-ter, comma 6, cod. strada. Secondo il rimettente, poiché l’art. 168-ter del codice penale stabilisce che l’estinzione del reato per esito positivo della messa alla prova non pregiudica l’applicazione delle sanzioni amministrative accessorie, l’art. 224-ter, comma 6, cod. strada «non lascia spazio a diverse interpretazioni in ordine alla sorte del veicolo sequestrato, nel senso l’autorità amministrativa, ove ne ricorrano le condizioni, non può che disporne la confisca». 3.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto dichiararsi infondata la questione. L’Avvocatura assume che gli istituti confrontati dal giudice a quo siano tra loro «assolutamente eterogenei», sicché la disciplina dell’uno non potrebbe essere presa a tertium comparationis della disciplina dell’altro in ordine alla confisca del veicolo. Considerato in diritto 1.– Il Tribunale ordinario di Bergamo ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 224-ter, comma 6, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), aggiunto dall’art. 44 della legge 29 luglio 2010, n. 120 (Disposizioni in materia di sicurezza stradale), per contrasto con l’art. 3 della Costituzione, nella parte in cui non prevede che, in caso di estinzione del reato di guida in stato di ebbrezza a seguito di esito positivo della messa alla prova, il prefetto, anziché verificare la sussistenza delle condizioni di legge per l’applicazione della sanzione amministrativa accessoria della confisca, disponga la restituzione del veicolo sequestrato all’avente diritto, ovvero nella parte in cui non prevede che, nel medesimo caso, il giudice civile, adito in sede di opposizione avverso l’ordinanza prefettizia di confisca, disponga la restituzione del veicolo sequestrato all’avente diritto. 1.1.– Il rimettente considera irragionevole che, in caso di estinzione del reato per svolgimento positivo del lavoro di pubblica utilità, il giudice debba revocare la confisca del veicolo a norma dell’art. 186, comma 9-bis, cod. strada e che, viceversa, in caso di estinzione del reato per esito positivo della messa alla prova, egli debba trasmettere gli atti al prefetto, affinché quest’ultimo, ove ne ricorrano le condizioni, disponga la confisca del veicolo a norma del combinato disposto degli artt. 168-ter del codice penale e 224-ter, comma 6, cod. strada. 2.– La questione è formulata in modo apparentemente ancipite, poiché la violazione del parametro di ragionevolezza è riferita, nel contempo, all’omessa previsione del dovere del prefetto di disporre la restituzione del veicolo in caso di estinzione del reato per esito positivo della messa alla prova «ovvero» all’omessa previsione del medesimo dovere del giudice in sede di opposizione all’ordinanza prefettizia di confisca. 2.1.– Per costante indirizzo di questa Corte, «l’alternatività del petitum che rende ancipite, e pertanto inammissibile, la questione di legittimità costituzionale è quella che non può essere sciolta per via interpretativa, e che si configura, quindi, come un’alternatività irrisolta (ex plurimis, sentenze n. 175 del 2018, n. 22 del 2016, n. 247 del 2015 e n. 248 del 2014; ordinanze n. 221 e n. 130 del 2017)» (sentenza n. 58 del 2020). Nel caso in esame, l’interpretazione complessiva dei termini di formulazione suggerisce che il rimettente non abbia prospettato un’alternativa irrisolta tra questioni plurime, ma si sia limitato ad una presentazione sequenziale della medesima questione, laddove la congiunzione “ovvero” non ha valore disgiuntivo, bensì esplicativo, e sta cioè per “quindi”. Secondo il petitum sostitutivo così interpretato, l’art. 224-ter, comma 6, cod. strada dovrebbe prevedere che, in caso di estinzione del reato per esito positivo della messa alla prova, il prefetto deve ordinare la restituzione del veicolo all’avente diritto; e che, “quindi”, ove il prefetto non abbia ordinato la restituzione del veicolo, ed anzi ne abbia disposto la confisca, la restituzione deve essere ordinata dal giudice dell’opposizione alla confisca. 3.– La questione è fondata. 3.1.– L’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova è stato introdotto, per gli imputati adulti, dalla legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili). In particolare, l’art. 3, comma 1, della legge n. 67 del 2014 ha aggiunto l’art. 168-bis cod. pen., che, al primo comma, consente di chiedere la sospensione del processo con messa alla prova all’imputato per reati puniti con la sola pena edittale pecuniaria o con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria, nonché per i delitti indicati dal comma 2 dell’art. 550 del codice di procedura penale. A norma dell’art. 168-bis, secondo comma, cod. pen., la messa alla prova comporta la prestazione di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché, ove possibile, il risarcimento del danno dallo stesso cagionato; comporta altresì l’affidamento dell’imputato al servizio sociale, per lo svolgimento di un programma che può implicare, tra l’altro, attività di volontariato di rilievo sociale, ovvero l’osservanza di prescrizioni relative ai rapporti con il servizio sociale o con una struttura sanitaria, alla dimora, alla libertà di movimento, al divieto di frequentare determinati locali. La concessione della messa alla prova è inoltre subordinata, per effetto del terzo comma dell’art. 168-bis cod. pen., alla prestazione di lavoro di pubblica utilità, consistente in una prestazione non retribuita in favore della collettività, da svolgere presso lo Stato, le Regioni, le Province, i Comuni, le aziende sanitarie o presso enti o organizzazioni, anche internazionali, che operano in Italia, di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato. L’art. 168-ter cod. pen., esso pure aggiunto dall’art. 3, comma 1, della legge n. 67 del 2014, stabilisce che l’esito positivo della prova estingue il reato per cui si procede (secondo comma, primo periodo) e che, tuttavia, l’estinzione del reato non pregiudica l’applicazione delle sanzioni amministrative accessorie, ove previste dalla legge (secondo comma, secondo periodo). 3.1.1.– Questa Corte ha osservato che la messa alla prova non è una sanzione penale, poiché la sua esecuzione è rimessa «alla spontanea osservanza delle prescrizioni da parte dell’imputato, il quale liberamente può farla cessare, con l’unica conseguenza che il processo sospeso riprende il suo corso» (sentenza n. 91 del 2018); pur non essendo una pena, tuttavia, la messa alla prova manifesta, per gli imputati adulti, una «innegabile connotazione sanzionatoria», che la differenzia dall’omologo istituto minorile, la cui funzione è, invece, essenzialmente (ri)educativa (sentenza n. 68 del 2019). La connotazione sanzionatoria della messa alla prova degli adulti viene evidenziata, tra l’altro, dalla prestazione del lavoro di pubblica utilità, che, a norma dell’art. 168- bis, terzo comma, cod. pen., è una componente imprescindibile dell’istituto riguardo ai maggiorenni, e che invece, a norma dell’art. 27 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 272 (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 448, recante disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), non figura tra le prescrizioni del progetto di intervento elaborato dai servizi minorili (ancora sentenza n. 68 del 2019). 3.2.– Aggiunto dall’art. 33, comma 1, lettera d), della legge n. 120 del 2010, e quindi introdotto contestualmente all’art. 224-ter cod. strada, il comma 9-bis dell’art. 186 del medesimo codice prevede che la pena detentiva e pecuniaria per la guida in stato di ebbrezza, a condizione che il reato non abbia provocato un incidente stradale, può essere sostituita, anche con il decreto penale di condanna, se non vi è opposizione da parte dell’imputato, con quella del lavoro di pubblica utilità di cui all’art. 54 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), secondo le modalità ivi previste e consistente nella prestazione di un’attività non retribuita a favore della collettività da svolgere, in via prioritaria, nel campo della sicurezza e dell’educazione stradale presso lo Stato, le Regioni, le Province, i Comuni o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato, o presso i centri specializzati di lotta alle dipendenze. Ai sensi del medesimo comma 9-bis dell’art. 186 cod. strada, in caso di svolgimento positivo del lavoro di pubblica utilità, il giudice fissa una nuova udienza e dichiara estinto il reato, dispone la riduzione alla metà della sanzione della sospensione della patente di guida e revoca la confisca del veicolo sequestrato. 3.2.1.– Questa Corte ha avuto modo di sottolineare che il lavoro di pubblica utilità disciplinato dal comma 9-bis dell’art. 186 cod. strada è, a tutti gli effetti, una pena sostitutiva (ordinanza n. 43 del 2013). Essa svolge, peraltro, anche una funzione “premiale”, in quanto il positivo svolgimento del lavoro sostitutivo determina per il condannato le favorevoli conseguenze della declaratoria di estinzione del reato, riduzione a metà della durata della sospensione della patente e revoca della confisca del veicolo (sentenza n. 198 del 2015). 3.3.– Sia la messa alla prova ex art. 168-bis cod. pen. che il lavoro di pubblica utilità ex art. 186, comma 9-bis, cod. strada hanno ad oggetto la prestazione di attività non retribuita in favore della collettività. Mentre rappresenta l’essenza stessa della pena sostitutiva di cui all’art. 186, comma 9-bis, cod. strada, la prestazione di attività non retribuita in favore della collettività è soltanto una componente del trattamento di prova di cui all’art. 168-bis cod. pen. Infatti, a norma dell’art. 168-bis, secondo comma, cod. pen., la messa alla prova esige anche condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato, nonché, ove possibile, il risarcimento del danno dallo stesso cagionato, e altresì l’affidamento dell’imputato al servizio sociale, per lo svolgimento di un programma che può implicare, tra l’altro, attività di volontariato di rilievo sociale, ovvero l’osservanza di prescrizioni relative ai rapporti con il servizio sociale o con una struttura sanitaria, alla dimora, alla libertà di movimento, al divieto di frequentare determinati locali. Il lavoro non retribuito in favore della collettività è una componente ulteriore della messa alla prova degli adulti, e tuttavia una componente imprescindibile, poiché, a norma dell’art. 168-bis, terzo comma, cod. pen., «la concessione della messa alla prova è inoltre subordinata alla prestazione di lavoro di pubblica utilità». 3.4.– Per costante giurisprudenza costituzionale, la discrezionalità del legislatore nella determinazione del trattamento sanzionatorio dei fatti di reato incontra il limite della manifesta irragionevolezza delle scelte compiute (ex plurimis, sentenze n. 155 del 2019 e n. 222 del 2018; ordinanza n. 207 del 2019), e tale limite vale anche nella definizione degli istituti processualpenalistici (ex plurimis, sentenze n. 155 del 2019 e n. 236 del 2018). 3.4.1.– Orbene, è manifestamente irragionevole che, pur al cospetto di una prestazione analoga, qual è il lavoro di pubblica utilità, e pur a fronte della medesima conseguenza dell’estinzione del reato, la confisca del veicolo venga meno per revoca del giudice, nel caso di svolgimento positivo del lavoro sostitutivo, e possa essere invece disposta per ordine del prefetto, nel caso di esito positivo della messa alla prova. L’irragionevolezza è resa ancor più evidente dal fatto che la sanzione amministrativa accessoria della confisca, mentre viene meno per revoca giudiziale nell’ipotesi di svolgimento positivo del lavoro sostitutivo, può essere disposta per ordinanza prefettizia nell’ipotesi di esito positivo della messa alla prova nonostante quest’ultima costituisca una misura più articolata ed impegnativa dell’altra, in quanto il lavoro di pubblica utilità vi figura insieme al compimento di atti riparatori da parte dell’imputato e all’affidamento dello stesso al servizio sociale. 3.4.2.– I profili differenziali tra i due istituti non sono in grado di giustificare la previsione dell’applicabilità della confisca nel caso in cui la messa alla prova si sia conclusa positivamente, con la conseguente estinzione del reato. Non lo è la circostanza che, a differenza della messa alla prova dell’adulto, applicabile solo a richiesta dell’imputato, il lavoro di pubblica utilità previsto dall’art. 186, comma 9-bis, cod. strada può essere applicato dal giudice anche d’ufficio, alla sola condizione che l’imputato non vi si opponga (ordinanza n. 43 del 2013). Il differente ruolo della volontà dell’imputato nell’applicazione delle due misure non incide sull’oggettività della prestazione lavorativa resa in favore della collettività, e con esito egualmente positivo, sicché esso non può giustificare un diseguale trattamento delle fattispecie in ordine alla confisca del veicolo. Né la giustificazione della disparità di trattamento può essere rinvenuta nel fatto che, a norma dell’art. 186, comma 9-bis, cod. strada, il lavoro sostitutivo deve svolgersi «in via prioritaria» nel campo della sicurezza e dell’educazione stradale. Avendo carattere non perentorio, ma soltanto preferenziale, questa disposizione non è sufficiente a differenziare, in termini generali e assoluti, l’attività non retribuita svolta quale pena sostitutiva da quella viceversa prestata nell’ambito della messa alla prova. 3.4.3.– Come già ricordato, nonostante la base volontaria che la distingue dalla pena, la messa alla prova dell’adulto determina pur sempre un «trattamento sanzionatorio» dell’imputato, ciò che questa Corte ha riconosciuto con la sentenza n. 91 del 2018, in adesivo richiamo alla sentenza 31 marzo 2016-1° settembre 2016, n. 36272, delle sezioni unite penali della Corte di cassazione. La circostanza che tale trattamento sanzionatorio abbia una sua indefettibile componente nella prestazione del lavoro di pubblica utilità – come evidenziato da questa Corte nella sentenza n. 68 del 2019 – denuncia la manifesta irragionevolezza della possibilità di applicazione della confisca nel caso di estinzione del reato di guida in stato di ebbrezza per effetto dell’esito positivo della messa alla prova di cui all’art. 168-bis cod. pen. 3.4.4.– In proposito, deve rilevarsi che, al momento dell’introduzione dell’art. 224-ter cod. strada, avvenuta contestualmente all’aggiunta dell’art. 186, comma 9-bis, del medesimo codice, l’ordinamento non prevedeva ancora l’istituto della messa alla prova per gli imputati adulti, quale autonoma causa di estinzione del reato. In occasione di tale riforma, il legislatore, mediante il comma 6 dell’art. 224-ter cod. strada, ha disciplinato gli effetti che le varie ipotesi di estinzione del reato producono in ordine alle sanzioni amministrative accessorie, prevedendo che, mentre l’estinzione «per morte dell’imputato» comporta il venir meno delle sanzioni accessorie già in essere, l’estinzione del reato «per altra causa» investe il prefetto della verifica di sussistenza delle relative condizioni di applicazione. Nel contempo, tuttavia, mediante l’aggiunta del comma 9-bis dell’art. 186 cod. strada, il legislatore ha introdotto una specifica, e nuova, ipotesi di estinzione del reato, appunto quella del positivo svolgimento del lavoro di pubblica utilità, anch’essa incidente sulle sanzioni amministrative accessorie, giacché ne deriva la revoca della confisca del veicolo, oltre alla dimidiazione della sospensione della patente di guida. In tal modo, il legislatore ha delineato un peculiare “microsistema”, all’interno del quale l’estinzione del reato per positivo svolgimento del lavoro di pubblica utilità, in ragione della sua evidente natura “premiale”, esclude la confisca del veicolo, in deroga alla disciplina delle altre ipotesi di estinzione del reato (diverse dalla morte dell’imputato), che, non condividendo quella natura “premiale”, contemplano l’eventualità della confisca prefettizia (si pensi, innanzitutto, alla prescrizione del reato). L’interna coerenza di questo “microsistema” è stata alterata dalla sopravvenuta disciplina della messa alla prova, con effetti distorsivi sull’attuale portata applicativa dell’art. 224-ter, comma 6, cod. strada. Infatti, la possibilità che, pur in caso di estinzione del reato di guida in stato di ebbrezza per esito positivo della messa alla prova, il prefetto disponga, ricorrendone le condizioni, la confisca del veicolo (della cui disponibilità, peraltro, l’imputato è stato privato sin dal momento del sequestro) – laddove lo stesso codice della strada prevede, per il caso in cui il processo si sia concluso con l’emissione di una sentenza di condanna e con l’applicazione della pena sostitutiva, non solo l’estinzione del medesimo reato di guida in stato di ebbrezza, ma anche la revoca della confisca del veicolo per effetto del solo svolgimento positivo del lavoro di pubblica utilità – risulta manifestamente irragionevole, ove rapportata alla natura, alla finalità e alla disciplina dell’istituto della messa alla prova, come delineate anche dalla giurisprudenza di questa Corte, prima richiamata. 3.4.5.– La disciplina degli istituti incentivanti nel trattamento sanzionatorio dei reati stradali non aggravati ha un evidente carattere speciale, come dimostra proprio la pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità per la guida in stato di ebbrezza non aggravata da incidente, la cui funzione “premiale” questa Corte ha già sottolineato (sentenza n. 198 del 2015). Attesa la sua portata generale, la sopravvenuta disposizione dell’art. 168-ter cod. pen., secondo la quale l’estinzione del reato per esito positivo della messa alla prova non pregiudica l’applicazione delle sanzioni amministrative accessorie, non interferisce con la menzionata disciplina speciale, in quanto, mancando elementi indicativi di una contraria volontà del legislatore, opera il criterio lex generalis posterior non derogat priori speciali (tra le tante, sentenze n. 2 del 2008 e n. 41 del 1992). 3.5.– Per quanto sopra detto, l’art. 224-ter, comma 6, cod. strada è manifestamente irragionevole. Come già chiarito nell’escludere il carattere ancipite della questione, il profilo enunciato dal rimettente circa i doveri decisori del giudice dell’opposizione alla confisca è meramente consequenziale a quello riguardante i doveri provvedimentali del prefetto, sicché non occorre sottoporlo ad autonomo esame, né farlo oggetto di autonoma pronuncia. 4.– Deve essere quindi dichiarata l’illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 3 Cost., dell’art. 224-ter, comma 6, cod. strada, nella parte in cui prevede che il prefetto verifica la sussistenza delle condizioni di legge per l’applicazione della sanzione amministrativa accessoria della confisca del veicolo, anziché disporne la restituzione all’avente diritto, in caso di estinzione del reato di guida sotto l’influenza dell’alcool per esito positivo della messa alla prova. Per Questi Motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 224-ter, comma 6, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), nella parte in cui prevede che il prefetto verifica la sussistenza delle condizioni di legge per l’applicazione della sanzione amministrativa accessoria della confisca del veicolo, anziché disporne la restituzione all’avente diritto, in caso di estinzione del reato di guida sotto l’influenza dell’alcool per esito positivo della messa alla prova. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 aprile 2020. F.to: Marta CARTABIA, Presidente Stefano PETITTI, Redattore Roberto MILANA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 24 aprile 2020. Il Direttore della Cancelleria F.to: Roberto MILANA” […] Read more…
29/07/2023“A.A. ha reclamato l’ordinanza del 16.7.21 con la quale il Tribunale di Catanzaro aveva rigettato la domanda di modifica delle condizioni stabilite in sede di prima regolamentazione della responsabilità sul figlio minore (Omissis), affidato alla madre con l’obbligo del padre di contribuzione al mantenimento del minore. Al riguardo, il reclamante lamentava che: il Tribunale non avesse tenuto conto della circostanza che i tempi di permanenza del figlio presso i genitori erano paritetici, con la conseguenza che entrambi i genitori avrebbero potuto provvedere al mantenimento diretto del minore con spese ripartite, essendo entrambi benestanti; il minore, (Omissis), non era stato sentito. Pertanto, il reclamante chiedeva che, in riforma del provvedimento impugnato, fosse disposto l’affido congiunto del minore con collocamento paritetico presso entrambi i genitori, con la revoca dell’obbligo del mantenimento esclusivo carico del padre. La Corte d’appello di Catanzaro ha rigettato il reclamo, osservando che: non si erano verificati significative variazioni rispetto all’accordo tra coniugi dell'(Omissis), con il quale era stato stabilito che il minore trascorresse almeno due notti a settimana con il padre, oltre ai fine settimana e alle festività alternate; il minore aveva dichiarato, in sede di audizione, di 2 trascorrere tre giorni a settimana con il padre e quattro con la madre, assetto sul quale i genitori concordavano, ma sostanzialmente previsto nel suddetto accordo. A.A. ricorre in cassazione con unico motivo. B.B. resiste con controricorso; entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa. Motivi della decisione che: L’unico motivo denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 337 quinquies c.c., art. 12 preleggi, artt. 112, 115, 116 c.p.c., nonchè vizio di motivazione per omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione su punti decisivi della causa, per non aver la Corte d’appello considerato i requisiti di novità addotti ai fini della richiesta di modifica del provvedimento impugnato, desumibili dalle dichiarazioni rese dal minore, all’udienza del (Omissis), di voler stare metà tempo con entrambi genitori, e per non aver essa adottato il consequenziale provvedimento di riforma della statuizione sull’obbligo esclusivo di mantenimento del minore. Nel controricorso, B.B. eccepisce l’inammissibilità del ricorso perchè tardivamente notificato oltre il termine semestrale di legge, il 23.8.22 rispetto alla pubblicazione dell’ordinanza impugnata in data 9.2.22, ritenendo che al procedimento in questione non s’applichi la sospensione feriale dei termini, sulla base del D.L. n. 18 del 2020, art. 83, comma 3, lett. a), contenente Nuove misure urgenti per contrastare l’emergenza epidemiologica da Covid-19 e contenerne gli effetti in materia di giustizia civile, penale, tributaria e militare, convertito nella L. n. 27 del 2020, e successive proroghe. L’eccezione è fondata. Invero, la dizione utilizzata dal citato art. 83, comma 3, lett. a) distingue due fattispecie, assoggettate alla medesima disciplina: a) quella delle cause relative agli alimenti, riferibile all’art. 433 c.c.; b) quella relativa all’obbligazione alimentare, norma che ha recepito la più ampia accezione contemplata dall’art. 1, comma 1, del Regolamento CE n. 4/2009 del Consiglio del 18.12.2008 relativo alla Competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni e alla cooperazione in materia di obbligazioni alimentari. Tale distinzione si fonda sulla diversa funzione assolta dall’obbligazione alimentare nei differenti contesti di riferimento: 1. l’obbligo alimentare in senso stretto, nell’accezione conforme alla tradizione civilistica del nostro ordinamento che trova la sua espressione nell’art. 433 c.c., soddisfa la mancanza di mezzi di sostentamento ed è inerente alle più elementari esigenze di vita del beneficiario; 2. La prestazione di mantenimento introdotta dal predetto art. 83, che afferisce ai mezzi necessari per consentire al beneficiario di godere del pregresso tenore di vita corrispondente alla posizione economico-sociale dei coniugi e, nel rapporto con i figli, dei genitori (Cass., n. 7760/22). Al riguardo, la Relazione illustrativa del Decreto n. 18, prevede espressamente che la locuzione “cause relative ad alimenti o ad obbligazioni alimentari derivanti da rapporti di famiglia, di parentela, di matrimonio o di affinità” vada intesa con il significato che ad essa viene dato nella normativa comunitaria ed in particolare nell’art. 1 del Regolamento CE n. 4/2009. E ciò “per non limitare la trattazione alle sole controversie alimentari strictu sensu il cui ambito può essere interpretato in modo più ristretto”. Ai fini interpretativi dell’innovativa normativa sulla sospensione dei termini processuali, la nozione di obbligazioni alimentari accolta nel diritto dell’Unione Europea va, pertanto, intesa nell’accezione autonoma propria del diritto comunitario (argomento ex considerando n. 11 del suddetto Regolamento), estesa a tutte le obbligazioni alimentari derivanti da rapporti di 3 famiglia, di parentela, di matrimonio o di affinità, e quindi comprensiva dei diversi istituti delle obbligazioni di mantenimento (e non solo di quelle di alimenti previste dall’ordinamento italiano). Infatti, la norma sull’emergenza Covid-19, per il suo chiaro tenore letterale, sottrae entrambe le fattispecie alla sospensione dei termini processuali e stabilisce per le due tipologie di accertamento (concernenti l’alimentare puro e l’alimentare da mantenimento da valere nell’ambito familiare) una trattazione in sede giurisdizionale destinata ad operare anche durante la sospensione feriale e pur in un periodo segnato dalla necessità di contenimento del rischio pandemico. La norma in questione è dunque espressione della discrezionalità del legislatore Eurounitario che, nell’adottare la norma regolamentare, bilancia e contempera i diversi interessi da tutelare, esprimendo l’innovativa ratio, diretta ad accomunare, seppure ai fini della disciplina della sospensione dei termini processuali, due istituti (l’obbligazione alimentare e quella di mantenimento) che sono sempre stati oggetto di differente regolamentazione per antica tradizione dommatica. Infatti, secondo la giurisprudenza di questa Corte, formatasi prima della riforma in questione, al procedimento di revisione del contributo di mantenimento dei figli è applicabile la disciplina sulla sospensione dei termini processuali nel periodo feriale, in quanto il diritto dei figli al mantenimento da parte dei genitori, anche dopo la separazione od il divorzio, previsto rispettivamente dall’art. 155 c.c. e della L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 6, non ha assolutamente natura alimentare (artt. 433 c.c. e segg.) nè ad essa assimilabile (Cass., n. 8417/2000; n. 8567/91). Tale argomentazione trovava fondamento nelle diverse finalità dei due istituti, quantunque entrambi afferissero agli obblighi di assistenza materiale, in senso ampio, della persona: gli alimenti, in particolare, costituiscono il rimedio assistenziale per un’eccezionale situazione di bisogno della persona che non sia in grado di provvedere ai suoi fondamentali bisogni di vita. La modifica legislativa ha dunque inteso, ai fini della sospensione feriale dei termini accomunare le due fattispecie delle cause alimentari e del mantenimento, per attuare un’armonizzazione della normativa Eurounitaria. Il ricorrente ha replicato, adducendo che la causa ha per oggetto non solo la determinazione dell’assegno di mantenimento, ma anche la modifica del collocamento del minore, per inferirne l’inapplicabilità del Decreto n. 19 del 2020, art. 83, sulla sospensione feriale del termini. Tale difesa è infondata. Invero, il fatto che la causa in esame abbia ad oggetto anche la modifica delle statuizioni emesse per il collocamento del minore presso i due genitori non può legittimare la sospensione feriale dei termini, in ragione dell’intrinseca urgenza sottesa alle cause in tema di mantenimento dei minori nel nuovo ambito delineato dal predetto art. 83, che s’estende alle altre questioni dibattute, oggetto del reclamo e del ricorso in questione. Va altresì osservato che la domanda sulla modifica del collocamento del minore, sebbene non espressamente contemplata dal R.D. n. 12 del 1941, art. 92 (testo sull’ordinamento giudiziario) – come richiamato dalla L. n. 742 del 1969, art. 3 – si configura quale causa suscettibile d’urgente trattazione, ovvero causa rispetto ai quali la ritardata trattazione potrebbe produrre grave pregiudizio ai destinatari tutelati dalla nuova regolamentazione. Per quanto esposto, considerata la mancata sospensione dei termini, il ricorso è inammissibile perchè notificato il 23.8.22 allorchè era decorso il termine semestrale per impugnare il provvedimento della Corte d’appello, non notificato, pubblicato il 9.2.22, come incontestato tra le parti. In conclusione, va affermato il seguente principio di diritto: in tema di obbligazioni alimentari come regolate dall’art. 1, comma 1, del Regolamento CE n. 4/2009 del Consiglio del 18.12.2008 (relativo alla Competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione delle 4 decisioni e alla cooperazione in materia di obbligazioni alimentari), a norma del D.L. n. 18 del 2020, art. 83, comma 3, convertito nella L. n. 27 del 2020, che della prima costituisce una derivazione, nelle cause in materia di mantenimento del coniuge debole e dei minori non è più applicabile la sospensione feriale dei termini processuali, di cui alla L. n. 742 del 1969, artt. 1 e 3; tali cause sono ormai tutte assimilabili a quelle in materia di alimenti, per definizione urgenti e non soggette a pause processuali obbligatorie; ove pertanto si controverta di siffatte obbligazioni, la sospensione dei termini non s’applica parimenti ai casi in cui la causa comprenda, in connessione, anche altre questioni familiari o riguardanti i minori, pur se non espressamente contemplate dal R.D. n. 12 del 1941, art. 92. Considerata la novità della controversia, ricorrono i presupposti per la compensazione delle spese del giudizio. P.Q.M. La Corte dichiara inammissibile il ricorso e compensa le spese del giudizio. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, ove dovuto. Dispone che ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in caso di diffusione della presente ordinanza si omettano le generalità e gli altri dati identificativi delle parti. Conclusione Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 6 giugno 2023. Depositato in Cancelleria il 23 giugno 2023″. […] Read more…


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