La Suprema Corte stabilisce: diffondere immagini intime di altri è reato di revenge porn anche quando inviate anonimamente e in assenza di sequestro del materiale. La recente sentenza 14927/25 amplia la tutela delle vittime.
I fatti e il procedimento
Il caso riguarda un soggetto condannato per aver diffuso immagini a contenuto sessualmente esplicito di una persona con cui aveva avuto una relazione. La Corte d’Appello di Milano aveva confermato la condanna di primo grado, e l’imputato aveva proposto ricorso per Cassazione articolando tre motivi di impugnazione.
I motivi del ricorso e le decisioni della Corte
Primo motivo: riconoscibilità della persona ritratta
Il ricorrente sosteneva che dalle immagini inviate non si potesse desumere che la persona ritratta fosse la persona offesa. La Corte ha dichiarato inammissibile questo motivo, ritenendo che:
- La riconoscibilità era stata ragionevolmente desunta dalla lunga conversazione tra l’imputato e il destinatario
- I riferimenti alla fine della relazione con la vittima denotavano la consapevolezza dell’identità della donna ritratta
Principio importante: La Corte ha inoltre precisato che il delitto di “revenge porn” è integrato anche quando la persona offesa non sia riconoscibile dalle immagini diffuse. La norma tutela infatti la sfera di intimità e la privacy, intesa come diritto a controllare l’esposizione del proprio corpo e della propria sessualità, in un’ottica di autodeterminazione della sfera sessuale individuale.
Secondo motivo: acquisizione delle prove
Il ricorrente contestava le modalità di acquisizione degli screenshot delle conversazioni. La Corte ha respinto il motivo, chiarendo che:
- Lo screenshot era stato fornito dalla stessa persona offesa
- Non si configurava una violazione della segretezza della corrispondenza ex art. 15 Cost.
- Le dichiarazioni convergenti della vittima e di altri testimoni erano comunque sufficienti per l’affermazione della responsabilità
Terzo motivo: remissione tacita della querela
Il ricorrente sosteneva che la mancata comparizione della persona offesa in udienza equivalesse a remissione tacita della querela. La Corte ha respinto anche questo motivo, stabilendo un importante principio:
Principio di diritto: La remissione tacita della querela che si realizza quando il querelante non compare all’udienza in cui è citato come testimone (art. 152, comma 3, n. 1, cod. pen.) non può essere equiparata alla mancata partecipazione della persona offesa al dibattimento quando le parti hanno dato consenso all’acquisizione delle sue dichiarazioni rese durante le indagini preliminari.
Conclusioni
La sentenza, depositata il 25 marzo 2025, rappresenta un importante precedente in materia di “revenge porn“, chiarendo che:
- Il reato sussiste anche quando la persona ritratta non è riconoscibile
- La tutela della privacy e dell’autodeterminazione sessuale è assoluta
- La remissione tacita della querela ha limiti precisi e non può essere estesa oltre i casi previsti dalla legge
Questa decisione rafforza la protezione delle vittime di diffusione non consensuale di immagini intime, confermando l’orientamento della giurisprudenza verso una tutela sempre più efficace della dignità personale nell’era digitale.
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