«Il nostro sistema normativo prevede che “la maternità è dimostrata provando la identità di colui che pretende di essere figlio e di colui che fu partorito dalla donna, la quale si assume essere madre” (art 269 comma 3 c.c.). Tale norma è stata introdotta con la riforma del 1975 quando ancora le tecniche di procreazione assistita erano agli albori, ma è pur vero che la sua formulazione è stata mantenuta dal legislatore della riforma della filiazione di cui al D.Lgs. n. 154 del 2013. Il legislatore della riforma, inoltre, nel sostituire la norma di cui all’art 239 c.c., ha previsto la possibilità di reclamare, o contestare, lo stato di figlio (art 240 c.c.), solo in caso di sostituzione di neonato o supposizione di parto. Non può negarsi, quindi, la volontà del legislatore, molto recente, di mantenere quale principio cardine dell’ordinamento la maternità naturale legata al fatto storico del parto. Nel caso in cui la donna gestante, unita in matrimonio, dichiari nell’atto di nascita il figlio come nato durante il matrimonio, il marito ne diviene il padre legale (art. 231 c.c., come modificato dal D.Lgs n.154/2013 che ha soppresso l’inciso “concepito” durante il matrimonio). Peraltro, in presenza dello status di figlio di altra persona (il marito della donna gestante), il padre genetico non può promuovere l’azione di disconoscimento e non può riconoscere il figlio.
La volontà del legislatore (…) è rimasta ferma, nonostante nella disciplina previgente numerose siano state le questioni di legittimità” costituzionale “sollevate in ordine alla disparità di trattamento tra figli nati in costanza o fuori dal matrimonio (…) Tutte sempre rigettate dalla Corte Costituzionale affermando che la determinazione dei soggetti legittimati a proporre l’azione di disconoscimento della paternità è una scelta insindacabile del legislatore che ha ritenuto di riservare ai soli soggetti direttamente interessati, e cioè ai membri della famiglia legittima, il potere di decidere circa la prevalenza della verità “biologica” o della verità “legale”. (…) Anche per la figura paterna a seguito delle tecniche riproduttive con donazione di gamete può venire meno la paternità genetica a favore di una paternità legale. Sotto l’aspetto sia etico sia giuridico nell’individuazione della maternità, come della paternità, a seguito della” Procreazione Medicalmente Assistita (PMA) “eterologa, acquisisce, dunque, rilievo il concetto di volontarietà del comportamento necessario per la filiazione, l’assunzione di responsabilità in ordine alla genitorialità, cosìda attribuire la maternità e la paternità a quei genitori che, indipendentemente dal loro apporto genetico, abbiano voluto il figlio accettando di sottoporsi alle regole deontologiche e giuridiche che disciplinano la PMA; ne consegue la regola che coloro che hanno dato un consenso informato alla procedura siano i genitori dei nati e che non è consentito il disconoscimento della paternità e dell’anonimato della madre (art. 9, commi 1 e 2). Il legislatore della riforma del 2013, nel solco dell’evoluzione del pensiero della migliore dottrina e dell’elaborazione giurisprudenziale, ha posto l’accento sul concetto di responsabilità genitoriale, come caratterizzante il rapporto di filiazione, eliminando dal nostro ordinamento l’istituto della potestà genitoriale. Il rapporto di filiazione – ed il conseguente diritto all’identità personale – si è andato sempre più sganciando nel nostro ordinamento dall’appartenenza genetica, potendosi rinvenire, grazie anche al rilievo “rivoluzionario” delle nuove tecniche riproduttive, diverse figure genitoriali; “la madre genetica” (la donna cui risale l’ovocita fecondato), “la madre biologica” (colei che ha condotto la gestazione), e la madre sociale (colei che esprime la volontà di assumere in proprio la responsabilità genitoriale); il padre genetico ed il padre sociale. Figure che possono anche di fatto non coincidere. Mentre il concetto di famiglia si è andato, dal canto suo, sempre più sganciando dal dato biologico e genetico degli appartenenti, venendo concepita sempre più come luogo degli affetti e della solidarietà reciproca, prima comunità ove si svolge e sviluppa la personalità del singolo; d’altra parte millenaria filosofia dell’uomo ha identificato nella famiglia l’archetipo della comunità sociale.
Tutte le più recenti pronunce dei giudici interni o europei che si sono trovate a dover dirimere interessi in conflitto relativi al rapporto di filiazione, sono fondate sulla valutazione del dato concreto del legame affettivo familiare ed hanno come punto di riferimento l’interesse del minore (secondo quanto stabilito dalla Convenzione sui diritti dell’Infanzia approvata dalle Nazioni Unite il 20.11.1989 e ratificata in Italia dalla L. n. 176/91) ed il principio di “autoresponsabilità” che deve sottendere al rapporto genitoriale, che trova il proprio fondamento nell’obbligo di solidarietà sancito dall’ art. 2 della Costituzione, mettendo, quindi, seriamente in discussione il principio del carattere necessariamente biologico o genetico del rapporto di filiazione. (…) l legislatore italiano della riforma della filiazione, infatti, nel rivedere la disciplina delle azioni di disconoscimento di paternità e di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità ha previsto un termine tombale di cinque anni per il loro esercizio, anche nei casi di sospensione previsti dalla legge, dando prevalenza all’interesse del minore alla stabilità del rapporto di filiazione ed a non recidere i legami familiari e di affetti che ne fondano l’identità, sulla verità genetica o biologica del rapporto di filiazione. Il legislatore ha accolto il principio in base al quale la tutela del diritto allo status ed alla identità personale può non identificarsi con la prevalenza della verità genetica. Nel bilanciamento degli interessi in conflitto, prevedendo un termine di decadenza “tombale” per l’esercizio dell’azione, il legislatore delegato ha inteso mutare radicalmente il principio fondante la precedente normativa (v. in particolare la disciplina dell’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità), lasciando prevalere sull’interesse pubblico alla verità del rapporto di filiazione, l’esigenza di non prolungare indefinitivamente la durata dell’incertezza dello stato di figlio. Mentre ha lasciato il figlio comunque arbitro del proprio status, essendo per lui l’azione imprescrittibile”. Insomma “Il diritto della personalità costituito dal diritto all’identità appare sempre più sganciato dalla verità genetica della procreazione e sempre più legato al mondo degli affetti ed al vissuto della persona cresciuta ed accolta all’interno di una famiglia (…) La riforma della filiazione ha mantenuto il principio in base alla quale è il parto che determina la maternità naturale, nella piena consapevolezza, si ritiene, dei progressi scientifici relativi alle tecniche di procreazione e della possibilità che la madre biologica od “uterina” potesse non identificarsi con la madre genetica (la dottrina ne discute fin dagli anni 80, quando in parlamento erano in gestazione i diversi disegni di legge sulla procreazione medicalmente assistita, ponendosi espressamente il problema della prevalenza della madre genetica o della madre biologica in caso di conflitto). (…) La letteratura scientifica è unanime nell’indicare come sia proprio nell’utero che si crea il legame simbiotico tra il nascituro e la madre. D’altro canto è solo la madre uterina che può provvedere all’allattamento al seno del bambino. Non può, pertanto, non ritenersi sussistente un interesse dei minori al mantenimento di tale legame, soprattutto alla luce del fatto che i bambini sono già nati e nei loro primi giorni di vita deve ritenersi abbiano già instaurato un significativo rapporto affettivo con entrambi i genitori e sono già inseriti in una famiglia». Così Tribunale di Roma, ordinanza 8 agosto 2014.
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