Il diritto al silenzio e le domande sulle qualità personali dell’imputato: la sentenza n. 111/2023 della Corte Costituzionale

SENTENZA N. 111

ANNO 2023

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Silvana SCIARRA; Giudici : Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 495 del codice penale e, in via subordinata, dell’art. 64, comma 3, del codice di procedura penale, nonché dello stesso art. 495 cod. pen., promosso dal Tribunale ordinario di Firenze, sezione prima penale, nel procedimento penale a carico di M. G., con ordinanza del 4 luglio 2022, iscritta al n. 98 del registro ordinanze 2022, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 38, prima serie speciale, dell’anno 2022, la cui trattazione è stata fissata per l’adunanza in camera di consiglio del 5 aprile 2023.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 6 aprile 2023 il Giudice relatore Francesco Viganò;

deliberato nella camera di consiglio del 6 aprile 2023.

Ritenuto in fatto

1.– Il Tribunale ordinario di Firenze, sezione prima penale, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 495 del codice penale, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, «nella parte in cui si applica alle false dichiarazioni rese nell’ambito di un procedimento penale dalla persona sottoposta ad indagini o imputata in relazione ai propri precedenti penali e in generale in relazione alle circostanze indicate nell’art. 21 disp. att. c.p.p.».

In via subordinata, il medesimo Tribunale ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento al solo art. 24 Cost., dell’art. 64, comma 3, del codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevede che gli avvisi ivi previsti debbano essere formulati nei confronti della persona sottoposta alle indagini/imputata prima di qualunque tipo di audizione della stessa nell’ambito del procedimento penale», nonché dello stesso art. 495 cod. pen., «nella parte in cui non prevede l’esclusione della punibilità per il reato ivi previsto in caso di false dichiarazioni – in relazione ai propri precedenti penali e in generale in relazione alle circostanze indicate nell’art. 21 disp. att. c.p.p. – rese nell’ambito di un procedimento penale da chi avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà di non rispondere».

1.1.– Il rimettente si trova a giudicare, in sede dibattimentale, della responsabilità penale di M. G., imputato tra l’altro del delitto di cui all’art. 374-bis cod. pen., per avere dichiarato al personale della Questura di Pisa – in sede di identificazione, elezione di domicilio e nomina del difensore nell’ambito di un procedimento penale – di non avere riportato condanne penali in Italia, avendo invece il medesimo M. G. già riportato due condanne divenute ormai definitive.

Un tale fatto, osserva il Tribunale, integra in realtà – secondo la costante giurisprudenza di legittimità (sono citate Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenze 26 febbraio-3 maggio 2016, n. 18476; 8 luglio-16 settembre 2015, n. 37571; 9-23 luglio 2014, n. 32741; 6 marzo-15 maggio 2007, n. 18677) – il più grave delitto di cui all’art. 495 cod. pen. (Falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale sulla identità o su qualità personali proprie o di altri), per il quale l’imputato dovrebbe dunque essere condannato.

Il rimettente dubita, tuttavia, della legittimità costituzionale di tale disposizione.

1.2.– Osserva anzitutto il giudice a quo che l’art. 495 cod. pen., il quale punisce «chiunque dichiara o attesta falsamente al pubblico ufficiale l’identità, lo stato o altre qualità della propria o dell’altrui persona», è stato considerato applicabile dalla Corte di cassazione non solo all’ipotesi di false dichiarazioni in ordine ai propri precedenti penali (sono citate Corte di cassazione, sentenze n. 18476 del 2016, n. 37571 del 2015, n. 32741 del 2014 e n. 18677 del 2007), ma anche alle false dichiarazioni relative ad altre circostanze indicate nell’art. 21 delle Norme di attuazione del codice di procedura penale (sono citate Corte di cassazione, sezione feriale, sentenza 4-11 settembre 2012, n. 34536, in relazione alla falsa dichiarazione relativa al titolo di studio in sede di interrogatorio davanti al giudice per le indagini preliminari, nonché Corte di cassazione, sezione quarta penale, sentenza 14-24 gennaio 2022, n. 2497, in relazione alla generalità delle dichiarazioni circa le proprie condizioni e qualità personali).

Aggiunge poi il rimettente che l’art. 64, comma 3, cod. proc. pen., nel dettare un’articolata disciplina relativa agli avvisi che devono essere formulati alla persona sottoposta a indagini prima che sia sottoposta ad interrogatorio, comprensivi dell’avviso della facoltà di non rispondere ad alcuna domanda, fa salvo espressamente quanto disposto dall’art. 66, comma 1, cod. proc. pen.; disposizione, quest’ultima, a tenore della quale «[n]el primo atto cui è presente l’imputato, l’autorità giudiziaria lo invita a dichiarare le proprie generalità e quant’altro può valere a identificarlo, ammonendolo circa le conseguenze cui si espone chi si rifiuta di dare le proprie generalità o le dà false».

L’art. 66 cod. proc. pen. – prosegue il rimettente – è a sua volta richiamato dall’art. 21 norme att. cod. proc. pen., il quale dispone che, «[q]uando procede a norma dell’articolo 66 del codice, il giudice o il pubblico ministero invita l’imputato o la persona sottoposta alle indagini a dichiarare se ha un soprannome o uno pseudonimo, se ha beni patrimoniali e quali sono le sue condizioni di vita individuale, familiare e sociale. Lo invita inoltre a dichiarare se è sottoposto ad altri processi penali, se ha riportato condanne nello Stato o all’estero e, quando ne è il caso, se esercita o ha esercitato uffici o servizi pubblici o servizi di pubblica necessità e se ricopre o ha ricoperto cariche pubbliche».

Rileva il rimettente, da un lato, che secondo la giurisprudenza di legittimità la persona sottoposta a indagini o indagata avrebbe l’obbligo di rispondere in modo veritiero soltanto alle domande relative alle proprie generalità e a quelle strettamente finalizzate all’identificazione, con esclusione delle dichiarazioni relative ai precedenti penali e alle altre circostanze elencate nell’art. 21 norme att. cod. proc. pen. Rispetto a tali circostanze, il soggetto potrebbe in effetti legittimamente rifiutarsi di rispondere senza incorrere in responsabilità penale. Laddove però decidesse di rispondere e rendesse false dichiarazioni, si renderebbe responsabile del delitto di cui all’art. 495 cod. pen. (sono citate le sentenze della Corte di cassazione n. 37571 del 2015, n. 32741 del 2014 e n. 18677 del 2007, nonché la sentenza n. 108 del 1976 di questa Corte, con riferimento alla disciplina all’epoca vigente).

Dall’altro lato, il rimettente rileva che, secondo la giurisprudenza di legittimità, le garanzie previste in via generale dall’art. 64 cod. proc. pen. nei confronti della persona sottoposta a indagini o dell’imputato, e segnatamente l’obbligo di formulare gli avvertimenti di cui al comma 3 di tale disposizione, non opererebbero in sede di identificazione ed elezione di domicilio (è citata Corte di cassazione, sentenza n. 18476 del 2016). In particolare, non vi sarebbe secondo la Corte di cassazione alcun obbligo di far precedere le domande di cui all’art. 21 norme att. cod. proc. pen. dagli avvisi di cui all’art. 64, comma 3, cod. proc. pen., dal momento che tali domande si riferirebbero all’identità e allo stato civile e giuridico dell’imputato, e non al fatto di cui egli sia accusato (sono citate Corte di cassazione, sentenze n. 2497 del 2022; sezione seconda penale, 3-10 novembre 2020, n. 31463; sezione sesta penale, 20 settembre-13 ottobre 2016, n. 43337; sezione quinta penale, 6 marzo-26 giugno 2013, n. 28020). Cionondimeno, osserva ancora il rimettente, le risposte fornite dalla persona sottoposta a indagini o dall’imputato a quelle domande potrebbero poi essere utilizzate dal giudice «ai fini cautelari o del merito» a pregiudizio della persona indagata o imputata.

1.3.– Tutto ciò premesso, il rimettente dubita – in via principale – della legittimità costituzionale dell’art. 495 cod. pen., in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui – secondo il diritto vivente sin qui ricostruito – si applica anche alle false dichiarazioni, rese nell’ambito di un procedimento penale dalla persona sottoposta a indagini o dall’imputato, rispetto ai propri precedenti penali e alla generalità delle circostanze di cui all’art. 21 norme att. cod. proc. pen.

Anche rispetto a tali circostanze opererebbe infatti il diritto al silenzio, riconosciuto dalla giurisprudenza di questa Corte come corollario del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. (sono citati l’ordinanza n. 117 del 2019 e gli ulteriori precedenti ivi menzionati).

A parere del rimettente, il legislatore – «se pur non si trattava (forse) di una scelta costituzionalmente o convenzionalmente obbligata» – avrebbe declinato tale diritto riconoscendo, in via generale, che la persona sottoposta a indagini, e poi l’imputato, non solo non hanno l’obbligo di rispondere al giudice o all’autorità che procede, ma hanno anche il diritto di mentire ad essi nell’esercizio della propria difesa. Al punto che, come riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità, dal mero mendacio dell’imputato il giudice non può normalmente trarre conseguenze per lo stesso pregiudizievoli, e in particolare negargli su tale base circostanze attenuanti o benefici (sono citate Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenze 17 gennaio-5 giugno 2020, n. 17232 e 14 settembre-28 dicembre 2017, n. 57703; sezioni unite penali, sentenza 24 maggio-20 settembre 2012, n. 36258).

Sarebbe pertanto necessario valutare se l’eccezione rappresentata dalle false dichiarazioni rese dalla persona sottoposta ad indagini in ordine alle circostanze di cui all’art. 21 norme att. cod. proc. pen. sia ragionevole.

In proposito, il rimettente osserva che «molto spesso le informazioni riferite con riguardo alle condizioni familiari ed economiche dell’indagato hanno un’evidente rilevanza ai fini della valutazione delle accuse: si pensi ad esempio alla maggiore o minore verosimiglianza della contestazione di un furto o di altro reato contro il patrimonio a seconda che l’indagato/imputato abbia o meno una regolare fonte di reddito o un consistente patrimonio; o, alla stessa stregua, alla valutazione della detenzione in casa di un quantitativo di stupefacente non irrisorio, come destinata al proprio consumo personale o piuttosto allo spaccio».

Con riguardo poi ai precedenti penali, prosegue il rimettente, essi a volte sono addirittura elementi costitutivi del reato (come nel caso della contravvenzione di cui all’art. 707 cod. pen.), e in ogni caso assumono rilevanza ai fini della possibile contestazione della recidiva e del trattamento sanzionatorio ex art. 133 cod. pen., nonché della concessione di benefici.

D’altra parte, «la dichiarazione da parte dell’indagato di avere o meno precedenti penali (così come quella di avere un’occupazione lavorativa o di convivere con una persona dotata di un reddito stabile o di avere altro procedimento pendente, magari con una misura cautelare in corso di esecuzione)» potrebbe «incidere sulla valutazione delle esigenze cautelari, diverso essendo chiaramente il significato che assume il delitto per cui si procede in presenza di un soggetto incensurato o, piuttosto, di un soggetto gravato da plurimi precedenti specifici».

Secondo il rimettente, nel rispondere a tutte queste domande il soggetto si starebbe in effetti già difendendo, «cercando di fornire una propria versione che, anche con riguardo ai precedenti penali e alle altre qualità e condizioni di cui all’art. 21 disp. att. c.p.p., renda meno verisimili le accuse o faccia apparire meno gravi i fatti o meno stringenti le esigenze cautelari».

Sarebbe, pertanto, «eccessivamente formalistico e quindi irragionevole distinguere tra domande preliminari, che non sarebbero coperte dal diritto di mentire, e domande rientranti nell’interrogatorio/esame vero e proprio, alle quali l’imputato potrebbe rispondere liberamente, senza timore di incorrere in ulteriori responsabilità penali». All’opposto, sarebbe costituzionalmente necessario declinare in modo unitario il contenuto del diritto al silenzio rispetto tanto all’oggetto della contestazione, quanto alle ulteriori domande che possono rilevare, tra l’altro, in relazione alle circostanze del reato, al trattamento sanzionatorio, ai benefici, alle esigenze cautelari, escludendo dunque la responsabilità penale per ogni falsa dichiarazione resa in proposito dalla persona sottoposta alle indagini o dall’imputato.

1.4.– Nell’ipotesi in cui questa Corte non ritenesse di accogliere le questioni così prospettate in via principale, il rimettente solleva – in via subordinata – questioni di legittimità costituzionale, questa volta in riferimento al solo art. 24 Cost.:

– dell’art. 64, comma 3, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede che gli avvisi ivi previsti debbano essere formulati alla persona sottoposta a indagini e all’imputato prima di qualunque tipo di audizione nell’ambito del procedimento penale – e dunque anche prima delle domande di cui all’art. 21 norme att. cod. proc. pen. –; nonché

– del medesimo art. 495 cod. pen., nella parte in cui non prevede l’esclusione della punibilità in caso di false dichiarazioni sui propri precedenti penali e in generale in relazione alle circostanze di cui all’art. 21 norme att. cod. proc. pen., rese nell’ambito di un procedimento penale da chi avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà di non rispondere.

Laddove, dunque, non fosse ritenuto irragionevole negare alla persona sottoposta a indagini o all’imputato la facoltà di mentire, e conseguentemente prevedere la sua punibilità per il delitto di cui all’art. 495 cod. pen. per il caso di false dichiarazioni alle domande di cui all’art. 21 norme att. cod. proc. pen., ad avviso del rimettente resterebbe tuttavia necessario assicurare adeguata tutela al diritto al silenzio del soggetto interessato, fondato sull’art. 24 Cost.

E ciò mediante – anzitutto – il suo previo ed espresso avviso relativo a tale diritto, ai sensi dell’art. 64, comma 3, cod. proc. pen., in mancanza del quale egli verrebbe di fatto indotto a rispondere, «magari mentendo per difendersi», alle domande che gli vengano poste dall’autorità di polizia o giudiziaria.

Una tale necessità sussisterebbe tanto nell’ipotesi in cui la persona sottoposta a indagini o imputata sia già assistita da un difensore, quanto – a maggior ragione – allorché non lo sia, non essendovi in tal caso alcuno che possa altrimenti renderla edotta dei suoi diritti.

Al fine poi di garantire effettività all’obbligo di formulare gli avvisi di cui all’art. 64, comma 3, cod. proc. pen. prima delle domande di cui all’art. 21 norme att. cod. proc. pen., occorrerebbe, inoltre, sancire la non punibilità ai sensi dell’art. 495 cod. pen. di chi abbia reso false dichiarazioni in risposta a tali domande senza ricevere gli avvisi medesimi, analogamente a quanto già oggi previsto dall’art. 384, secondo comma, cod. pen. rispetto a chi avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà di astenersi dal rendere informazioni, testimonianza, perizia, consulenza o interpretazione.

1.5.– Il rimettente esclude, infine, che ai risultati auspicati sia possibile pervenire in via ermeneutica, mediante una interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni censurate, stante l’ostacolo opposto dal diritto vivente; ciò che renderebbe imprescindibile la prospettazione delle odierne questioni.

2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, sostenendo la non fondatezza di tutte le questioni sollevate dal rimettente.

Le dichiarazioni della persona sottoposta a indagini o imputata relative ai propri precedenti penali sarebbero, anzitutto, del tutto ininfluenti sul piano dell’esercizio del diritto di difesa, dal momento che il pubblico ministero fin dalla fase delle indagini preliminari acquisisce sempre le informazioni contenute nel casellario giudiziale; dal che deriverebbe «l’assoluta inanità del tentativo dell’indagato di fuorviare gli organi inquirenti dichiarando falsamente di non aver precedentemente commesso reati».

D’altra parte, le domande di cui all’art. 21 norme att. cod. proc. pen. concernerebbero, nel loro complesso, «fatti e circostanze agevolmente conoscibili dall’autorità procedente, ragion per cui un eventuale rifiuto di rispondere non condurrebbe ad alcun effettivo vantaggio sul piano difensivo», come sarebbe riconosciuto dalla stessa giurisprudenza di legittimità (è citata Corte di cassazione, sentenza n. 2497 del 2022).

Conseguentemente, la mancata previsione della non punibilità per il delitto di cui all’art. 495 cod. pen. nel caso in cui – in mancanza dei necessari avvisi – l’imputato o indagato abbia reso false dichiarazioni in relazione ai propri precedenti penali e alle altre circostanze di cui all’art. 21 norme att. cod. proc. pen. non potrebbe essere ritenuta in contrasto con l’art. 24 Cost.

Considerato in diritto

1.– Il Tribunale ordinario di Firenze, sezione prima penale, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 495 cod. pen., in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., «nella parte in cui si applica alle false dichiarazioni rese nell’ambito di un procedimento penale dalla persona sottoposta ad indagini o imputata in relazione ai propri precedenti penali e in generale in relazione alle circostanze indicate nell’art. 21 disp. att. c.p.p.».

In via subordinata, il medesimo Tribunale ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento al solo art. 24 Cost., dell’art. 64, comma 3, cod. proc. pen., «nella parte in cui non prevede che gli avvisi ivi previsti debbano essere formulati nei confronti della persona sottoposta alle indagini/imputata prima di qualunque tipo di audizione della stessa nell’ambito del procedimento penale», nonché dello stesso art. 495 cod. pen., «nella parte in cui non prevede l’esclusione della punibilità per il reato ivi previsto in caso di false dichiarazioni – in relazione ai propri precedenti penali e in generale in relazione alle circostanze indicate nell’art. 21 disp. att. c.p.p. – rese nell’ambito di un procedimento penale da chi avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà di non rispondere».

2.– L’Avvocatura generale dello Stato non ha formulato eccezioni di inammissibilità delle questioni.

2.1.– In effetti, le questioni – sollevate in via principale e subordinata – aventi a oggetto l’art. 495 cod. pen. sono certamente ammissibili, dal momento che di tale disposizione il giudice a quo è direttamente chiamato a fare applicazione nel giudizio penale.

2.2.– Ammissibile è, peraltro, anche la questione – prospettata in via subordinata – avente a oggetto la disposizione di cui all’art. 64, comma 3, cod. proc. pen., della quale pure il rimettente lamenta, propriamente, la mancata applicazione da parte dell’autorità di polizia in sede di identificazione della persona sottoposta a indagini ai sensi dell’art. 349 cod. proc. pen.

Il rimettente invoca infatti da parte di questa Corte un intervento complessivo – a suo avviso imposto dalla logica di una tutela effettiva del diritto al silenzio, discendente dall’art. 24 Cost. – con il quale si dovrebbe incidere, a un tempo, sul diritto penale sostanziale e processuale. Sul diritto penale sostanziale, attraverso l’esclusione della punibilità ex art. 495 cod. pen. in caso di false dichiarazioni rese in risposta alle domande di cui all’art. 21 norme att. cod. proc. pen. dalla persona sottoposta a indagini o imputata che non sia stata previamente avvertita della facoltà di non rispondere a tali domande; e sul diritto penale processuale, attraverso l’introduzione dell’obbligo di avvertire la persona medesima di tale facoltà, nelle forme già previste in via generale dall’art. 64, comma 3, cod. proc. pen., prima che le siano rivolte le domande di cui allo stesso art. 21.

I due corni dell’intervento auspicato sono, nella prospettiva del rimettente, inscindibilmente connessi, non avendo significato una pronuncia di parziale illegittimità costituzionale della norma incriminatrice di cui all’art. 495 cod. pen., che ne dichiari la non applicabilità alle ipotesi in cui siano stati omessi gli avvisi di cui all’art. 64, comma 3, cod. proc. pen., senza che al tempo stesso sia sancito, sul terreno del diritto processuale, l’obbligo di formulare tali avvisi anche in relazione alle domande di cui all’art. 21 norme att. cod. pen. Pertanto, l’addizione normativa auspicata non potrebbe che realizzarsi su entrambe le disposizioni: in caso di accoglimento delle questioni prospettate in via subordinata, le disposizioni indicate verrebbero a costituire un’unica coerente disciplina, i cui riflessi sul terreno del diritto penale sostanziale condurrebbero al risultato dell’assoluzione dell’imputato dal reato di cui all’art. 495 cod. pen., il quale non sia stato previamente avvertito, ai sensi dell’art. 64, comma 3, cod. proc. pen., della propria facoltà di non rispondere in relazione ai propri precedenti penali.

3.– Nel merito, le questioni ora portate all’esame di questa Corte ruotano attorno all’estensione del diritto al silenzio della persona sottoposta a indagini o imputata nel corso del procedimento penale. Più in particolare, il rimettente assume che il diritto al silenzio copra non solo le circostanze attinenti al fatto del quale la persona sia sospettata o accusata, ma anche quelle – cui si riferisce l’art. 21 norme att. cod. proc. pen. – che riguardano la sua persona, al di fuori delle generalità in senso stretto (nome, cognome, luogo e data di nascita).

3.1.– Sin da tempi risalenti, questa Corte ha ritenuto che il diritto al silenzio – definito dall’art. 14, paragrafo 3, lettera g), del Patto internazionale sui diritti civili e politici (PIDCP) come la garanzia, spettante a ogni individuo accusato di un reato, «a non essere costretto a deporre contro sé stesso o a confessarsi colpevole» – costituisca corollario implicito del diritto inviolabile di difesa, sancito dall’art. 24 Cost.

Già la sentenza n. 236 del 1984 afferma che nel diritto di difesa del soggetto nei cui confronti siano emersi indizi di reato «rientra certamente il diritto di rifiutarsi di rispondere (tranne ovviamente che alle richieste attinenti all’identificazione del soggetto medesimo)» (punto 12 del Considerato in diritto). Nella sentenza n. 361 del 1998 si legge, in termini ancora più espliciti, che «l’intangibilità del diritto di difesa, sotto forma del rispetto del principio nemo tenetur se detegere, e conseguentemente del diritto al silenzio, si manifesta nella garanzia dell’esclusione […] dell’obbligo di rispondere in dibattimento a domande che potrebbero coinvolgere responsabilità proprie» (punto 2.1. del Considerato in diritto). Ancora, l’ordinanza n. 291 del 2002, testualmente ripresa sul punto dalle ordinanze n. 451 e n. 485 del 2002, e poi dall’ordinanza n. 202 del 2004, definisce il principio nemo tenetur se detegere come un «corollario essenziale dell’inviolabilità del diritto di difesa».

Più recentemente, l’ordinanza n. 117 del 2019 – fondando il diritto in questione, assieme, sull’art. 24 Cost. e sulle fonti di diritto internazionale vincolanti per l’ordinamento italiano, tra le quali il menzionato art. 14 PIDCP e l’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, nell’interpretazione fornitane dalla Corte di Strasburgo (punto 7.2. del Considerato in diritto) – lo ha definito come il «diritto della persona a non contribuire alla propria incolpazione e a non essere costretta a rendere dichiarazioni di natura confessoria (nemo tenetur se ipsum accusare)» (punto 3 del Considerato in diritto).

In risposta poi alle questioni pregiudiziali formulate da questa Corte con la stessa ordinanza n. 117 del 2019, relativa al rilievo del diritto al silenzio nell’ambito di procedimenti amministrativi suscettibili di sfociare nell’irrogazione di sanzioni di carattere sostanzialmente punitivo, la grande sezione della Corte di giustizia dell’Unione europea, con sentenza 2 febbraio 2021, in causa C-481/19, D. B. contro Consob, ha parimenti riconosciuto che il diritto al silenzio è implicitamente garantito nell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in armonia con la costante giurisprudenza della Corte EDU in materia di art. 6 CEDU, precisando che tale diritto «risulta violato, segnatamente, in una situazione in cui un sospetto, minacciato di sanzioni per il caso di mancata deposizione, o depone o viene punito per essersi rifiutato di deporre» (paragrafo 39), e che esso «comprende anche le informazioni su questioni di fatto che possano essere successivamente utilizzate a sostegno dell’accusa ed avere così un impatto sulla condanna o sulla sanzione inflitta a tale persona» (paragrafo 40). Affermazioni, queste ultime, puntualmente riprese dalla successiva sentenza n. 84 del 2021 di questa Corte, con la quale è stata dichiarata costituzionalmente illegittima una disposizione sanzionatoria del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52), nella parte in cui si applicava anche a chi si fosse rifiutato di rispondere a domande della CONSOB dalle quali potesse emergere una sua responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative di carattere punitivo, o addirittura per un reato.

3.2.– La vigente disciplina del processo penale tutela il diritto al silenzio della persona sottoposta alle indagini essenzialmente per il tramite dell’art. 64, comma 3, cod. proc. pen., a tenore del quale l’autorità che procede deve, prima che abbia inizio l’interrogatorio, formulare una serie di avvertimenti, tra cui in particolare quello previsto dalla lettera b), relativo alla «facoltà di non rispondere ad alcuna domanda». Il successivo comma 3-bis dispone, poi, che l’omissione di tale avvertimento «rende inutilizzabili le dichiarazioni rese dalla persona interrogata». Gli avvertimenti di cui al comma 3 debbono essere formulati anche in ogni caso di interrogatorio durante il processo, nonché, di regola, in sede di sommarie informazioni alla polizia giudiziaria (art. 350, comma 1, cod. proc. pen.).

Sul versante del diritto penale sostanziale, d’altra parte, né il silenzio né le false informazioni rese dalla persona sottoposta alle indagini o dall’imputato in sede di interrogatorio danno luogo di per sé a responsabilità penale, fatte salve le ipotesi – in particolare – in cui essi accusino falsamente altri di avere commesso il reato (art. 368 cod. pen.) ovvero affermino falsamente essere avvenuto un reato in realtà mai realizzato (art. 367 cod. pen.).

3.3.– Il codice di rito, peraltro, allo stato non riconosce alla persona sottoposta alle indagini e all’imputato il diritto al silenzio rispetto alle domande relative alle proprie «generalità» e a «quant’altro può valere a identificar[li]»: domande che, ai sensi dell’art. 66, comma 1, cod. proc. pen., debbono essere loro rivolte nel primo atto in cui essi sono presenti. Ciò si desume sia dallo stesso art. 66, comma 1, cod. proc. pen., che impone all’autorità procedente l’obbligo di avvertire la persona sottoposta alle indagini delle «conseguenze cui si espone chi si rifiuta di dare le proprie generalità o le dà false»; sia dall’art. 64, comma 3, lettera b), cod. proc. pen. che, nel prescrivere l’obbligo di avvertire la persona circa la facoltà di non rispondere, fa espressamente «salvo quanto disposto dall’articolo 66, comma 1», cod. proc. pen.

Parallelamente, nell’ambito del diritto penale sostanziale l’art. 651 cod. pen. prevede come contravvenzione il rifiuto di fornire le proprie generalità; e l’art. 495 cod. pen. commina la pena della reclusione da uno a sei anni a carico di chi «dichiara o attesta falsamente al pubblico ufficiale l’identità, lo stato o altre qualità della propria o dell’altrui persona». Secondo la costante giurisprudenza di legittimità, tale ultima disposizione – oggetto delle odierne censure – si applica anche alla persona sottoposta alle indagini e all’imputato che fornisca false generalità (ex multis, Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenze 6 dicembre 2021-7 febbraio 2022, n. 4264 e 20 luglio-5 settembre 2016, n. 36834).

3.4.– Come anticipato, le questioni oggi all’esame di questa Corte non concernono però le domande relative alle generalità della persona sottoposta alle indagini e dell’imputato, bensì quelle ulteriori che l’autorità procedente – in forza dell’art. 21 norme att. cod. proc. pen. – è tenuta a formulare quando procede ai sensi dell’art. 66, comma 1, cod. proc. pen. Si tratta, in particolare, di ulteriori domande relative al soprannome o allo pseudonimo, alla eventuale disponibilità di beni patrimoniali, alle condizioni di vita individuale, familiare e sociale, nonché dell’invito, rivolto all’identificando, di dichiarare se sia sottoposto ad altri processi penali, se sussistano a suo carico condanne nello Stato o all’estero, e se eserciti o abbia esercitato uffici o servizi pubblici, servizi di pubblica necessità o cariche pubbliche.

3.4.1.– Questa Corte fu investita, nel 1976, di questioni analoghe a quelle oggi all’esame, formulate in riferimento all’art. 24 Cost., e aventi a oggetto tanto la previgente versione dell’art. 495, secondo comma, cod. pen. che parimenti incriminava la falsa dichiarazione dell’imputato sulla propria identità, sul proprio stato e sulle proprie qualità personali, quanto l’art. 25 del regio decreto 28 maggio 1931, n. 602 (Disposizioni di attuazione del codice di procedura penale). Tale ultima disposizione, funzionalmente omologa all’attuale art. 21 norme att. cod. proc. pen., statuiva tra l’altro l’obbligo a carico del giudice di chiedere preliminarmente all’imputato se fosse sottoposto ad altri procedimenti penali e avesse riportato condanne in Italia o all’estero.

Nel giudicare non fondate quelle questioni, che assumevano il contrasto delle disposizioni censurate con il diritto dell’imputato di «astenersi da qualsivoglia dichiarazione a lui pregiudizievole», questa Corte ritenne non essere dubbio «che, se l’imputato, alla domanda rivoltagli dall’inquirente sui suoi precedenti penali risponde in modo contrario al vero, egli incorre nelle sanzioni previste dall’art. 495 del codice penale. Ma non è esatto che, a tale domanda, egli sia tenuto a rispondere, essendo certo che può rifiutarsi di fornire le notizie, che in proposito gli vengano richieste, senza incorrere in alcuna responsabilità penale». Dall’analisi del citato art. 25 delle disposizioni di attuazione allora vigenti questa Corte dedusse, in effetti, «che l’imputato, solo alla richiesta delle proprie generalità è tenuto a fornire risposta, incorrendo in responsabilità penale qualora si rifiuti di rispondere, o dia false generalità», dovendosi intendere per generalità soltanto «il nome, il cognome, la data e il luogo di nascita»: con esclusione dunque delle altre circostanze indicate dalla disposizione allora censurata, tra le quali gli eventuali precedenti penali (sentenza n. 108 del 1976, punto 4 del Considerato in diritto).

3.4.2.– Nel vigore del nuovo codice di procedura penale, la giurisprudenza di legittimità ha, da un lato, confermato che rispetto alle circostanze di cui all’art. 21 norme att. cod. proc. pen. non sussiste per la persona sottoposta alle indagini o imputata un obbligo di rispondere, a differenza di quanto accade rispetto alle proprie generalità; dall’altro, continua a ritenere che, ove la persona interrogata risponda e affermi il falso, sia ravvisabile nei suoi confronti il delitto di cui all’art. 495, primo comma, cod. pen., nella versione oggi vigente (in relazione alle false affermazioni sui propri precedenti penali, ex multis, Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenze 8 giugno-8 luglio 2022, n. 26440 e n. 18476 del 2016; relativamente alla falsa affermazione di essere laureato in giurisprudenza, Corte di cassazione, sentenza n. 34536 del 2012).

Peraltro, questa stessa giurisprudenza nega che le domande di cui all’art. 21 norme att. cod. proc. pen. abbiano attinenza con il diritto costituzionale di difesa della persona sottoposta alle indagini o imputata, e pertanto non richiede che la persona medesima sia avvertita della facoltà di non rispondere a tali domande ai sensi dell’art. 64, comma 3, cod. proc. pen., ben potendo – anzi – tali domande essere formulate subito dopo l’ammonimento, previsto dall’art. 66, comma 1, cod. proc. pen., circa le conseguenze cui si espone chi si rifiuta di dare le proprie generalità o le dà false (Corte di cassazione, sentenza n. 2497 del 2022).

Inoltre, la Corte di cassazione non ravvisa alcun ostacolo nell’utilizzare anche contra reum, in sede cautelare o di merito, le dichiarazioni rese dalla persona sottoposta alle indagini o imputata in risposta alle domande di cui all’art. 21 norme att. cod. proc. pen.: ad esempio, valorizzando le dichiarazioni sulla situazione reddituale e patrimoniale ai fini della sussistenza dei presupposti di un sequestro preventivo finalizzato alla confisca in casi particolari di cui all’art. 240-bis cod. pen. (Corte di cassazione, sentenza n. 31463 del 2020), ovvero per escludere la finalità di uso personale di sostanze stupefacenti (Corte di cassazione, sentenza n. 2497 del 2022, nonché sentenza n. 43337 del 2016, ove si afferma non sussistere «alcun limite di utilizzabilità […] in ordine alle risposte fornite dall’imputato sulle proprie condizioni di vita e personali, in quanto non attengono al merito del procedimento, né possono qualificarsi dichiarazioni contra se solo in ragione della valutazione operata dal giudice»).

3.5.– Questa Corte ritiene che l’assetto appena descritto del diritto vivente non assicuri sufficiente tutela al diritto al silenzio della persona sottoposta a indagini o imputata di cui all’art. 24 Cost., letto anche alla luce degli obblighi internazionali vincolanti per il nostro Paese e del diritto dell’Unione (supra, punto 3.1.).

Ciò in quanto, da un lato, il diritto costituzionale al silenzio si estende, a giudizio di questa Corte, anche alle domande di cui all’art. 21 norme att. cod. proc. pen. (infra, punto 3.5.1.); e, dall’altro, perché una tutela effettiva di questo diritto non può prescindere dalla formulazione di un previo avvertimento alla persona sottoposta alle indagini o imputata della facoltà di non rispondere anche a tali domande (infra, punto 3.5.2.).

3.5.1.– Anzitutto, se il diritto al silenzio è diritto dell’individuo «a non essere costretto» non solo a «confessarsi colpevole», ma anche «a deporre contro sé stesso», come recita l’art. 14, paragrafo 3, lettera g), PIDCP, tale diritto è necessariamente in gioco allorché l’autorità che procede in relazione alla commissione di un reato ponga alla persona sospettata o imputata di averlo commesso domande su circostanze che, pur non attenendo direttamente al fatto di reato, possano essere successivamente utilizzate contro di lei nell’ambito del procedimento o del processo penale, e siano comunque suscettibili di avere «un impatto sulla condanna o sulla sanzione» che le potrebbe essere inflitta (Corte di giustizia, sentenza D. B. contro Consob, paragrafo 40).

Una tale situazione si verifica, per l’appunto, rispetto alle domande indicate nell’art. 21 norme att. cod. proc. pen., che concernono bensì condizioni personali del sospetto reo o dell’imputato diverse dalle sue generalità, ma la cui conoscenza da parte dell’autorità procedente può generare conseguenze per lui pregiudizievoli nel corso del procedimento penale, ovvero ai fini della condanna e della commisurazione della pena. E ciò stante l’insussistenza – secondo il diritto vivente di cui si è appena dato conto – di alcun divieto di utilizzare contra reum le risposte a tali domande.

Cominciando con i precedenti penali, essi talvolta – come correttamente osserva il rimettente – integrano elementi costitutivi del reato, come nel caso della contravvenzione di cui all’art. 707 cod. pen.; e sono comunque suscettibili di integrare, ove cristallizzati in sentenze passate in giudicato, la circostanza aggravante della recidiva, che può comportare aumenti di pena anche assai significativi. Inoltre, le informazioni sugli altri procedimenti penali cui la persona sia sottoposta o sulle condanne anche non definitive che abbia eventualmente riportato, in Italia o all’estero – queste ultime normalmente non conoscibili tramite il casellario giudiziale –, ben potranno essere utilizzate dal pubblico ministero e poi dal giudice per valutare la pericolosità sociale, a tutti i fini per i quali è richiesta tale valutazione: dalla decisione su un’eventuale misura precautelare e cautelare o sulla richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova, sino alle determinazioni relative all’eventuale proscioglimento per particolare tenuità del fatto o alla quantificazione della pena, comprensive della commisurazione della pena in senso stretto (art. 133, secondo comma, numero 2, cod. pen.), dell’applicabilità di talune attenuanti (e in particolare delle attenuanti generiche di cui all’art. 62-bis cod. pen.), nonché della possibile sospensione condizionale della pena (alla luce di quanto previsto dall’art. 164, primo comma, cod. pen.).

Poco rileva, allora, che le informazioni sui precedenti penali possano essere agevolmente ricavate – come osserva l’Avvocatura generale dello Stato – dall’esame del casellario giudiziale, con conseguente «inanità del tentativo dell’indagato di fuorviare gli organi inquirenti dichiarando falsamente di non aver precedentemente commesso reati». Trattandosi infatti di circostanze potenzialmente pregiudizievoli per la persona sottoposta alle indagini o imputata, per di più suscettibili in molti casi di integrare una circostanza aggravante che può determinare drastici innalzamenti di pena, l’onere di dimostrare la sussistenza di tali circostanze – così come di tutte le altre dalle quali dipende la responsabilità penale dell’imputato – non può che gravare sul pubblico ministero, risultando frontalmente incompatibile con l’art. 24 Cost. ogni assetto normativo che miri a imporre alla persona sospettata o accusata di un reato un dovere di fornire informazioni idonee non solo a contribuire alla propria condanna, ma anche ad aggravare la pena applicabile, ovvero a determinare l’adozione di misure limitative dei suoi diritti nell’ambito del procedimento e poi del processo penale.

Analoghe considerazioni possono svolgersi per tutte le altre circostanze oggetto delle domande indicate nell’art. 21 norme att. cod. proc. pen. La conoscenza del soprannome o dello pseudonimo di una persona – che, a differenza del nome e del cognome, vale a identificarla non già al cospetto dell’intera comunità civile, ma esclusivamente nella cerchia delle sue relazioni private – può essere di cruciale importanza ai fini investigativi, ad esempio in presenza di intercettazioni in cui la persona sottoposta a indagini o imputata sia stata indicata, come spesso avviene, con il soprannome: la domanda relativa a tale circostanza equivalendo, in simili casi, alla sollecitazione di una vera e propria confessione.

Ancora, come la dottrina processualpenalistica non ha mancato di sottolineare, le informazioni sui beni patrimoniali posseduti dalla persona sottoposta a indagini o imputata, sulle sue condizioni di vita individuale, familiare e sociale, nonché sull’esercizio di uffici o servizi pubblici – lungi dall’essere meramente funzionali all’identificazione del soggetto – possono anch’esse assumere rilievo, durante le indagini e il processo, nella prospettiva della valutazione delle esigenze cautelari (in particolare del pericolo di fuga o di reiterazione del reato) che sorreggono le misure cautelari personali, nonché dei presupposti delle misure cautelari reali (ad esempio in relazione all’entità del patrimonio ai fini del sequestro conservativo); così come, in esito al processo, ai fini della commisurazione della pena detentiva (art. 133, secondo comma, numero 4, cod. pen.) e pecuniaria (art. 133-bis cod. pen.), nonché delle misure interdittive che abbiano ad oggetto l’esercizio di uffici o servizi pubblici.

Rispetto alla generalità di queste circostanze, la dimensione costituzionale del diritto al silenzio osta a che possa ravvisarsi un dovere della persona medesima di fornire le relative informazioni all’autorità procedente, e in tal modo di collaborare nelle indagini e nel processo a proprio carico.

3.5.2.– Se dunque le circostanze di cui all’art. 21 norme att. cod. proc. pen. debbono ritenersi coperte dal diritto al silenzio di cui all’art. 24 Cost., resta da valutare se il diritto vivente sia congegnato in modo da assicurare adeguata tutela a tale diritto.

Al riguardo, conviene preliminarmente rammentare che una violazione del diritto al silenzio si verifica non solo quando la persona sia costretta mediante violenza o intimidazione a rendere simili dichiarazioni, ma anche quando essa sia indotta a farlo sotto minaccia di una pena o comunque di una sanzione di carattere punitivo, come nel caso deciso dalla sentenza n. 84 del 2021.

Ora, è vero che il diritto penale sostanziale vigente – esattamente come all’epoca della richiamata sentenza n. 108 del 1976 – non considera penalmente rilevante il mero silenzio della persona sottoposta alle indagini o imputata serbato sulle domande di cui all’art. 21 norme att. cod. proc. pen., ritenendo punibili soltanto le false dichiarazioni rese in quel contesto, che secondo la giurisprudenza integrano il delitto di cui all’art. 495 cod. pen.

Tuttavia, è altrettanto vero che il diritto processuale, come interpretato dalla costante giurisprudenza di legittimità (supra, punto 3.4.2.), non richiede che la persona venga avvertita della facoltà di non rispondere prima che le vengano rivolte le domande indicate nell’art. 21 norme att. cod. proc. pen., le quali – anzi – sono normalmente formulate subito dopo l’ammonimento, previsto dall’art. 66, comma 1, cod. proc. pen., circa le conseguenze cui si espone chi rifiuti di dare le proprie generalità.

E nulla vieta poi – come riconosciuto da quella stessa giurisprudenza di legittimità – che le dichiarazioni rese in risposta a tali domande possano essere utilizzate contro il dichiarante, per i più diversi scopi, nel corso del procedimento e poi del processo penale. Ciò che, del resto, deriva pianamente dall’art. 64, comma 3-bis, cod. proc. pen., il divieto di utilizzazione ivi previsto applicandosi soltanto nei casi in cui siano stati illegittimamente omessi gli avvisi previsti dal precedente comma 3: avvisi, per l’appunto, che la giurisprudenza non ritiene debbano precedere le domande di cui all’art. 21 norme att. cod. proc. pen.

Un tale assetto normativo e giurisprudenziale determina una situazione di insufficiente tutela del diritto al silenzio, alla luce del generale principio di effettività della garanzia dei diritti fondamentali riconosciuti dalla Costituzione, particolarmente valorizzato da questa Corte proprio in relazione al diritto di difesa, rientrante in quel «novero dei diritti inalienabili della persona umana (sentenze n. 238 del 2014, n. 323 del 1989 e n. 18 del 1982), che caratterizzano l’identità costituzionale italiana» (ordinanza n. 117 del 2019, punto 7.1. del Considerato in diritto; sull’effettività del diritto di difesa nei suoi vari corollari, ex multis, di recente, sentenze n. 18 del 2022, punti 4.3. e 4.4.2. del Considerato in diritto; n. 10 del 2022, punto 9.2. del Considerato in diritto; n. 157 del 2021, punto 8.1. del Considerato in diritto).

In effetti, come evidenziato dalla Corte Suprema degli Stati Uniti in una delle sue più note decisioni del secolo scorso (Corte Suprema degli Stati Uniti, Miranda v. Arizona, 384 U.S. 436 [1966], pagina 467), la garanzia effettiva del diritto a non contribuire alla propria incriminazione esige la previsione di idonei strumenti procedurali per assicurarne il rispetto da parte della polizia e dell’autorità giudiziaria. Per controbilanciare la pressione psicologica che inevitabilmente è connessa ad un interrogatorio compiuto in un tribunale o in un ufficio della procura, e che può comprensibilmente indurre la persona interrogata a rendere dichiarazioni che non avrebbe reso in diverse circostanze, è necessario – argomentò in quell’occasione la Corte Suprema – che la persona sia «adeguatamente ed effettivamente informata dei suoi diritti», attraverso i ben noti “warnings” enunciati dalla stessa sentenza, pressoché letteralmente ripresi dallo stesso legislatore italiano nel codice di procedura penale vigente; ed è, altresì, necessario che l’ordinamento preveda, correlativamente, la sanzione processuale dell’inutilizzabilità di tutte le dichiarazioni rese dall’interessato, allorché detto obbligo procedurale sia stato violato (nel senso della necessità, ai fini del rispetto del diritto al silenzio desumibile dall’art. 6 CEDU, di un previo avvertimento relativo alla facoltà di non rispondere, altresì Corte EDU, sentenze 24 ottobre 2013, Navone e altri contro Monaco, paragrafo 74; 27 ottobre 2011, Stojković contro Francia e Belgio, paragrafo 54; 14 ottobre 2010, Brusco contro Francia, paragrafo 54).

Tale obbligo procedurale e tale sanzione processuale non sono attualmente previsti in relazione alle circostanze cui si riferiscono le domande previste dall’art. 21 norme att. cod. proc. pen., nonostante la loro indubbia idoneità ad essere utilizzate contra reum nel corso del procedimento e poi del processo penale. Ne deriva che la persona interessata non è oggi posta in grado di esercitare consapevolmente il proprio diritto al silenzio, e non è in alcun modo tutelata allorché tale diritto sia stato violato.

Il che concreta il lamentato vulnus all’art. 24 Cost.

4.– Ciò posto, il rimedio individuato dal rimettente con il primo gruppo di questioni è, tuttavia, per un verso eccedente lo scopo (infra, punto 4.1.), e per un altro verso insufficiente rispetto a questo stesso scopo (infra, punto 4.2.).

4.1.– Il giudice a quo sottolinea correttamente che il legislatore italiano ha ritenuto, in via generale, di non prevedere alcuna sanzione penale a carico della persona sottoposta alle indagini o imputata che renda false dichiarazioni a propria difesa; e ritiene quindi che la punizione, ai sensi dell’art. 495 cod. pen., delle specifiche false dichiarazioni in risposta alle domande di cui all’art. 21 norme att. cod. proc. pen. violi gli artt. 3 e 24 Cost. Conseguentemente, il rimettente chiede che questa Corte dichiari l’illegittimità costituzionale dello stesso art. 495 cod. pen., nella parte in cui include anche tali dichiarazioni fra le condotte penalmente rilevanti.

Con ciò – si noti – il rimettente non assume che il diritto al silenzio di cui all’art. 24 Cost. includa anche un vero e proprio diritto a mentire, che di per sé renda costituzionalmente illegittima la punizione delle false dichiarazioni della persona sottoposta alle indagini o imputata. Un simile assunto, d’altronde, non solo non corrisponderebbe alla nozione internazionalmente riconosciuta del diritto al silenzio, ma sarebbe a ben guardare sfornito di alcun preciso supporto nella stessa giurisprudenza di questa Corte, dal momento che la cursoria affermazione, talvolta valorizzata dalla dottrina, contenuta nella sentenza n. 179 del 1994 – «l’imputato non solo gode della facoltà di non rispondere, ma non ha nemmeno l’obbligo di dire la verità» (punto 5.1. del Considerato in diritto) – assolve in quel contesto una mera funzione descrittiva del sistema disegnato dal legislatore, senza intendere con ciò precisare il contenuto del diritto al silenzio costituzionalmente tutelato.

Piuttosto, nella prospettiva del rimettente sarebbe in gioco un mero imperativo di coerenza del legislatore, rilevante sotto il profilo dell’art. 3 Cost., nel declinare la tutela del diritto di cui all’art. 24 Cost. nella concretezza dell’ordinamento: una volta che il legislatore, nell’esercizio della propria discrezionalità, abbia ritenuto in via generale che le esigenze di tutela di tale diritto escludano la punibilità delle dichiarazioni di chi, sospettato o imputato di un reato, abbia detto il falso alle autorità nel tentativo di difendersi, sarebbe costituzionalmente insostenibile la differenza di trattamento fra situazioni analoghe, quali le dichiarazioni relative al fatto di reato, da un lato, e quelle relative alle circostanze personali del suo possibile autore, dall’altro.

Non pare tuttavia a questa Corte che le esigenze di coerenza interna al sistema, pur in via di principio rilevanti al metro dell’art. 3 Cost., possano spingersi sino a precludere al legislatore l’adozione di soluzioni differenziate in relazione a situazioni egualmente riconducibili all’area del diritto al silenzio, ma fra loro non del tutto omogenee.

La scelta legislativa di non prevedere, di regola, sanzioni penali a carico della persona sospettata o imputata di un reato che menta nel tentativo di difendersi poggia su ragioni solide, e corrisponde a un’antica tradizione nel nostro Paese; ma il fatto che il legislatore non abbia previsto una sanzione penale per una data condotta non significa necessariamente che tale scelta corrisponda a una valutazione di liceità della condotta medesima (e tanto meno all’avere considerato quella condotta come espressione di un diritto di rango costituzionale).

L’ordinamento vigente già conosce, d’altronde, situazioni in cui la persona sottoposta a indagini o imputata – che non si sia avvalsa del diritto al silenzio di cui è costituzionalmente titolare – può essere punita ove renda dichiarazioni menzognere che riguardino la responsabilità di altri (art. 64, comma 3, lettera c, cod. proc. pen.), ovvero affermi essere stato commesso un reato in realtà inesistente (supra, punto 3.2.). In simili ipotesi, l’ordinamento considera necessaria la pena in funzione di un’efficace tutela degli interessi – pubblici e privati – protetti dagli artt. 367 e 368 cod. pen., valutando come recessive le ragioni che, normalmente, rendono non opportuna, o non necessaria, la pena a carico della persona che tali dichiarazioni abbia reso nell’intento di difendersi dalle accuse che le siano state rivolte.

Né sussiste, come anticipato, una perfetta sovrapponibilità tra le false dichiarazioni relative al fatto di reato – ritenute in via generale non penalmente rilevanti dal legislatore – e quelle relative alle circostanze personali del sospetto reo, potenzialmente abbracciate dall’art. 495 cod. pen. Fermo restando che il diritto al silenzio si estende alle une come alle altre, non appare a questa Corte irragionevole che – laddove l’interessato rinunci consapevolmente a esercitare quel diritto – il legislatore possa vietargli di rendere dichiarazioni false sulle circostanze relative alla propria persona e prevedere una sanzione penale nel caso di inosservanza di tale divieto. Che l’autorità procedente possa confidare, in particolare, sulla veridicità di queste dichiarazioni, liberamente rese dall’interessato, appare, del resto, funzionale anche all’interesse di questi a non vedere adottate, nei propri confronti, misure cautelari inutili, o comunque eccessive, rispetto alle reali esigenze di contenimento della sua pericolosità, o del periculum attinente ai beni potenzialmente oggetto di misure reali.

Da ciò deriva che l’auspicata dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 495 cod. pen., nella parte in cui comprende anche le false dichiarazioni rese da chi sia stato previamente avvertito della facoltà di non rispondere alle domande di cui all’art. 21 norme att. cod. proc. pen., conseguirebbe un risultato eccedente lo scopo di assicurare la conformità a Costituzione del vigente assetto normativo e giurisprudenziale.

4.2.– Il rimedio indicato sarebbe, per altro verso, inadeguato rispetto a tale scopo, intervenendo soltanto sul versante della punibilità delle false dichiarazioni, ma non su quello – che ne costituisce un prius dal punto di vista tanto logico quanto cronologico – dell’imposizione alle autorità procedenti dell’obbligo di avvisare la persona interrogata della propria facoltà di non rispondere anche alle domande di cui all’art. 21 norme att. cod. proc. pen.: obbligo senza il quale, come poc’anzi osservato, lo stesso diritto al silenzio rispetto a tali domande resterebbe svuotato di ogni effettività.

4.3.– Ne consegue la non fondatezza delle questioni prospettate in via principale.

5.– Sono fondate, invece, le questioni formulate dal rimettente in via subordinata.

5.1.– Merita accoglimento, anzitutto, la questione avente a oggetto l’art. 64, comma 3, cod. proc. pen. in riferimento all’art. 24 Cost.

Secondo la costante giurisprudenza di legittimità (supra, punto 3.4.2.), gli avvertimenti ivi previsti non devono necessariamente essere formulati alla persona sottoposta alle indagini o imputata prima che le vengano rivolte le domande di cui all’art. 21 norme att. cod. proc. pen. Conseguentemente, non opera rispetto alle dichiarazioni rese dalla persona interessata in risposta a tali domande la regola generale della loro inutilizzabilità, posta dal successivo comma 3-bis, per il caso in cui gli avvertimenti siano stati omessi.

Per le considerazioni già svolte (supra, punto 3.5.2.), tale assetto normativo e giurisprudenziale non è conforme alle esigenze di tutela del diritto al silenzio, come riconosciuto dall’art. 24 Cost., che esige invece che la persona sottoposta alle indagini o imputata sia debitamente avvertita, segnatamente, del proprio diritto di non rispondere anche alle domande relative alle proprie condizioni personali diverse da quelle relative alle proprie generalità, e della possibilità che le sue eventuali dichiarazioni siano utilizzate nei suoi confronti.

L’art. 64, comma 3, cod. proc. pen. deve, pertanto, essere dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che gli avvertimenti ivi indicati siano rivolti alla persona sottoposta alle indagini o all’imputato prima che vengano loro richieste le informazioni di cui all’art. 21 norme att. cod. proc. pen.

Per effetto di tale dichiarazione di illegittimità costituzionale, le relative dichiarazioni rese dall’interessato che non abbia ricevuto gli avvertimenti di cui all’art. 64, comma 3, cod. proc. pen. resteranno, ai sensi del comma 3-bis, non utilizzabili nei suoi confronti.

5.2.– Fondata è altresì, nei termini prospettati in via subordinata, la questione avente a oggetto l’art. 495 cod. pen., anch’essa in riferimento all’art. 24 Cost.

La punibilità delle false dichiarazioni relative alle «qualità della propria o dell’altrui persona» ai sensi dell’art. 495 cod. pen. deve ritenersi non in contrasto con l’art. 24 Cost. soltanto ove la persona sottoposta alle indagini o imputata abbia previamente ricevuto l’avvertimento circa il suo diritto a non rispondere ai sensi dell’art. 64, comma 3, cod. proc. pen.; restando poi libero il legislatore di valutare se estendere la non punibilità anche all’ipotesi in cui l’interessato, avendo ricevuto l’avvertimento, renda comunque dichiarazioni false allo scopo di evitare conseguenze a sé pregiudizievoli nell’ambito del procedimento e poi del processo penale.

Anche l’art. 495, primo comma, cod. pen. deve, pertanto, essere dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non esclude la punibilità della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato che, richiesti di fornire le informazioni indicate nell’art. 21 norme att. cod. proc. pen. senza che siano stati loro previamente formulati gli avvertimenti di cui all’art. 64, comma 3, cod. proc. pen., abbiano reso false dichiarazioni.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 64, comma 3, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che gli avvertimenti ivi indicati siano rivolti alla persona sottoposta alle indagini o all’imputato prima che vengano loro richieste le informazioni di cui all’art. 21 delle Norme di attuazione del codice di procedura penale;

2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 495, primo comma, del codice penale, nella parte in cui non esclude la punibilità della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato che, richiesti di fornire le informazioni indicate nell’art. 21 norme att. cod. proc. pen. senza che siano stati loro previamente formulati gli avvertimenti di cui all’art. 64, comma 3, cod. proc. pen., abbiano reso false dichiarazioni;

3) dichiara non fondate le ulteriori questioni di legittimità costituzionale dello stesso art. 495 cod. pen., sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Firenze, sezione prima penale, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 aprile 2023.

F.to:

Silvana SCIARRA, Presidente

Francesco VIGANÒ, Redattore

Igor DI BERNARDINI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 5 giugno 2023.

Il Cancelliere

F.to: Igor DI BERNARDINI

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15/07/2025Il Ministero della Giustizia ha recentemente pubblicato un importante aggiornamento riguardante il Patrocinio a Spese dello Stato, strumento fondamentale per garantire l’accesso alla giustizia anche a chi non dispone di risorse economiche sufficienti. La Novità: Nuovo Limite Reddituale Con Decreto del 22 aprile 2025, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 159 dell’11 luglio 2025, il limite reddituale per l’ammissione al Patrocinio a Spese dello Stato è stato aggiornato a € 13.659,64. Questo adeguamento rappresenta un importante passo avanti per ampliare la platea dei cittadini che possono accedere alla difesa legale gratuita. Cosa Significa per i Cittadini L’innalzamento del limite reddituale significa che: Più persone potranno beneficiare del patrocinio gratuito Le famiglie con redditi fino a € 13.659,64 avranno diritto all’assistenza legale senza costi Si garantisce una maggiore tutela del diritto di difesa per le fasce economicamente più deboli Chi Può Richiedere il Patrocinio Possono richiedere il Patrocinio a Spese dello Stato i cittadini italiani, dell’Unione Europea e stranieri regolarmente soggiornanti che: Abbiano un reddito imponibile non superiore a € 13.659,64 Si trovino in condizioni economiche tali da non poter sostenere le spese del processo Rispettino i requisiti previsti dal D.P.R. 115/2002 Procedura di Richiesta La domanda deve essere presentata: Prima dell’udienza o dell’atto per cui si chiede il patrocinio Utilizzando l’apposita modulistica Allegando la documentazione reddituale necessaria Conclusioni Questo aggiornamento del limite reddituale rappresenta un segnale positivo verso una giustizia più accessibile e inclusiva. È importante che i cittadini siano informati di questa opportunità per poter esercitare pienamente i propri diritti. Per maggiori informazioni e per la modulistica necessaria, è possibile consultare la nostra pagina dedicata al Gratuito Patrocinio a Spese dello Stato. Gratuito Patrocinio a Spese dello Stato Tag: #PatrocinioSpesedelloStato #GratuitoPatrocinio #DirittoallaDifesa #MinisterodellaGiustizia #AccessoallaGiustizia #AssistenzaLegaleGratuita #DirittiCivili #Avvocatura #LeggeProcessuale #Decreto2025 #LimiteReddito2025 #AvvocatoAnconaGratuitoPatrocinio […] Read more…
02/07/2025La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 15149/2025 della Quinta Sezione Penale, ha fornito un importante chiarimento sul calcolo del termine per la presentazione della querela, stabilendo un principio fondamentale: la decorrenza del termine deve considerarsi “differita” quando la persona offesa necessita di tempo per esaminare la documentazione acquisita al fine di acquisire piena consapevolezza dell’illiceità penale del fatto. Il Caso: infedeltà patrimoniale in una Cooperativa Edilizia La vicenda riguardava un caso di infedeltà patrimoniale (art. 2634 cod. civ.) all’interno della cooperativa edilizia, dove gli amministratori erano accusati di aver costituito una società in conflitto di interessi e di averle affidato incarichi per oltre 400.000 euro. La Corte d’Appello di Roma aveva dichiarato il non doversi procedere per tardività della querela, ritenendo che il termine decorresse dal 6 novembre 2017, quando la documentazione era stata messa a disposizione durante una riunione del consiglio di amministrazione. La querela, presentata il 15 febbraio 2018, sarebbe quindi risultata tardiva poiché l’art. 124 del Codice Penale stabilisce che “salvo che la legge disponga altrimenti, il diritto di querela non può essere esercitato, decorsi tre mesi dal giorno della notizia del fatto che costituisce il reato“. Secondo la Corte d’Appello, dal 6 novembre 2017 al 15 febbraio 2018 erano trascorsi oltre tre mesi (più di 100 giorni), rendendo la querela intempestiva. Il Principio della Decorrenza Differita La Cassazione ha censurato questa impostazione, ribadendo un principio consolidato ma spesso trascurato nella prassi: il termine per la querela non decorre automaticamente dalla mera consegna della documentazione, ma dalla piena acquisizione della consapevolezza dell’illiceità penale. Come chiarito dalla Suprema Corte: “La decorrenza del termine per la presentazione della querela è differita quando la persona offesa deve compiere accertamenti al fine di acquisire la consapevolezza della illiceità penale del fatto (pur se questo si protragga solo per il tempo strettamente necessario al compimento di tali verifiche)” Tempo Ragionevole per l’Esame Un aspetto particolarmente significativo della sentenza riguarda il riconoscimento del diritto a un tempo ragionevole per l’analisi della documentazione. La Corte ha specificato che: È “errato e congetturale” fissare il dies a quo nella data di consegna della documentazione Devono essere concessi “quantomeno alcuni giorni” per un esame esaustivo Anche “una decina di giorni” può essere considerato un tempo ragionevole È legittimo richiedere documentazione aggiuntiva per confermare l’ipotesi di reato Nel caso specifico, la richiesta di documentazione bancaria del 4 gennaio 2018 era stata considerata dalla Cassazione come parte del legittimo processo di accertamento, non come mero tentativo dilatorio. Implicazioni Pratiche per la Difesa Questa pronuncia ha importanti ricadute pratiche: Per le vittime di reato: possono prendersi il tempo necessario per analizzare adeguatamente la documentazione prima di presentare querela; Per la difesa: l’eccezione di tardività della querela deve essere supportata da prove concrete sui tempi di acquisizione della consapevolezza dell’illecito; Per i giudici: devono valutare caso per caso la ragionevolezza dei tempi impiegati per l’esame della documentazione. La Distribuzione dell’Onere della Prova La sentenza richiama inoltre il consolidato principio per cui l’onere di provare la tardività della querela grava su chi la eccepisce, non sulla persona offesa. Questo significa che non basta dimostrare la data di consegna della documentazione, ma occorre provare che in quella data si sia acquisita piena consapevolezza dell’illiceità del fatto. Conclusioni La sentenza n. 15149/2025 rappresenta un importante presidio per i diritti delle persone offese, riconoscendo che la complessità di molti reati (soprattutto economici) richiede tempo per essere adeguatamente compresa e valutata. Il principio della decorrenza differita tutela il diritto di accesso alla giustizia, evitando che la mera consegna formale di documenti possa precludere l’esercizio dell’azione penale. Come Avvocato Penalista con esperienza in reati patrimoniali, economici e societari, questa sentenza evidenzia e conferma l’importanza di una strategia difensiva articolata che tenga conto dell’evoluzione giurisprudenziale sui termini processuali. La difesa in questi procedimenti richiede: 🎯Analisi approfondita dei tempi di acquisizione della documentazione e della consapevolezza dell’illecito 🎯Valutazione della complessità del caso per determinare la ragionevolezza dei tempi di esame 🎯Strategia probatoria mirata sull’onere della prova della tardività della querela 🎯Tempestività nell’azione per la tutela dei diritti dell’assistito Questo articolo ha scopo informativo e non costituisce consulenza legale. Per un parere professionale sul vostro caso specifico, vi invito a contattare il mio studio o prenotare una consulenza legale on-line: Per richiedere un appuntamento con me: Consulenza Legale in Studio Consulenza Legale On-Line Tags: #querela #termine #decorrenza #cassazione #reati-economici #infedeltà-patrimoniale #diritto-penale #avvocatopenalistaancona #documentazione #avvocatocassazionistaancona #dies-a-quo […] Read more…
01/07/2025Introduzione La recente sentenza della Cassazione Penale, Sezione IV, n. 15076 del 2025, offre importanti spunti di riflessione sulla delicata questione della responsabilità penale dell’infermiere addetto al triage ospedaliero. Il caso analizzato dalla Suprema Corte evidenzia come un errore di valutazione nella fase di accoglienza del paziente possa configurare il reato di omicidio colposo. Che cos’è il Triage: Definizione e Funzione Il triage (dal francese “trier”, che significa “scegliere” o “selezionare”) è un sistema di valutazione e classificazione dei pazienti che si presentano al pronto soccorso, basato sulla gravità delle loro condizioni cliniche e sull’urgenza del trattamento necessario. Obiettivi del Triage Il sistema di triage persegue tre obiettivi fondamentali: Identificazione rapida dei pazienti in condizioni critiche che necessitano di intervento immediato Ottimizzazione delle risorse sanitarie disponibili Riduzione dei tempi di attesa per i casi più urgenti I Codici di Priorità Il triage italiano utilizza un sistema a cinque codici colore: Codice Rosso (Emergenza): Pericolo di vita immediato – accesso diretto Codice Giallo (Urgenza): Condizioni potenzialmente pericolose – attesa massima 30 minuti Codice Verde (Urgenza differibile): Condizioni non pericolose – attesa fino a 120 minuti Codice Azzurro (Non urgenza): Condizioni minori – attesa fino a 240 minuti Codice Bianco (Non urgenza): Condizioni che non richiedono prestazioni di pronto soccorso Il Ruolo dell’Infermiere di Triage L’infermiere addetto al triage ha la responsabilità di: Valutare rapidamente le condizioni del paziente Assegnare il codice di priorità appropriato Monitorare i pazienti in attesa Rivalutare periodicamente le condizioni cliniche Attivare tempestivamente il personale medico quando necessario Questa funzione richiede competenze specifiche, formazione continua e capacità di decisione rapida in situazioni di stress. I Fatti del Caso La vicenda riguarda un infermiere che, durante il turno di triage presso il pronto soccorso, aveva assegnato un codice di priorità inadeguato a un paziente che successivamente è deceduto. La Corte di Appello aveva confermato la condanna per omicidio colposo, ritenendo che l’infermiere avesse violato le linee guida e i protocolli ospedalieri nella valutazione iniziale del paziente. La Posizione della Cassazione La Suprema Corte ha rigettato il ricorso dell’infermiere, confermando la responsabilità penale. I giudici hanno chiarito alcuni principi fondamentali: 1. Autonomia Professionale e Responsabilità L’infermiere addetto al triage gode di autonomia professionale nella valutazione dei pazienti, ma questa autonomia comporta una corrispondente responsabilità. Non può invocare l’assenza di supervisione medica diretta per escludere la propria colpevolezza. 2. Standard di Diligenza Richiesto Il parametro di valutazione è quello dell’infermiere modello, dotato delle competenze specifiche richieste per il ruolo di triage. L’errore diventa penalmente rilevante quando si discosta significativamente dagli standard professionali consolidati. 3. Protocolli e Linee Guida Il rispetto dei protocolli ospedalieri e delle linee guida nazionali costituisce elemento essenziale per escludere la colpa. La loro violazione, se causalmente collegata all’evento lesivo, può fondare la responsabilità penale. Implicazioni Pratiche per gli Infermieri Formazione Continua La sentenza sottolinea l’importanza di una formazione specifica e aggiornata per gli infermieri addetti al triage. La competenza professionale deve essere costantemente mantenuta attraverso corsi di aggiornamento e training specifici. Documentazione dell’Attività È fondamentale documentare accuratamente ogni valutazione effettuata, motivando le scelte adottate e registrando tutti gli elementi clinici rilevanti osservati. Collaborazione con il Team Medico Pur nell’autonomia del proprio ruolo, l’infermiere deve saper riconoscere i propri limiti e richiedere tempestivamente la consulenza medica nei casi dubbi o complessi. Considerazioni sulla Responsabilità Ospedaliera La sentenza tocca anche il tema della responsabilità della struttura sanitaria nell’organizzazione del servizio di triage. L’ospedale deve garantire: Protocolli chiari e aggiornati Formazione adeguata del personale Supervisione appropriata Dotazioni strumentali idonee Conclusioni La pronuncia della Cassazione conferma l’orientamento giurisprudenziale che riconosce piena autonomia e responsabilità professionale all’infermiere di triage. Questo comporta la necessità di: Elevare gli standard formativi specifici per questa funzione Implementare sistemi di qualità per il monitoraggio delle performance Rafforzare la collaborazione tra personale infermieristico e medico Aggiornare costantemente protocolli e procedure La responsabilità penale dell’infermiere non deve essere vista come una minaccia, ma come il riconoscimento del valore e dell’importanza professionale del ruolo. Tuttavia, questo riconoscimento deve essere accompagnato da adeguate tutele formative e organizzative da parte delle strutture sanitarie. La Mia Attività Professionale come Avvocato Penalista ad Ancona Come Avvocato Cassazionista con esperienza ventennale in diritto penale, esercito la mia professione prevalentemente davanti al Tribunale e alla Corte d’Appello di Ancona, garantendo ai miei assistiti una difesa tecnica aggiornata alle più recenti evoluzioni giurisprudenziali. Esperienza in Ambito Sanitario Nell’ambito della responsabilità penale sanitaria, con consolidata esperienza mi occupo di: Delitti contro la persona: lesioni personali colpose e dolose in ambito sanitario Omicidio colposo per errore medico o infermieristico Responsabilità professionale di medici, infermieri e operatori sanitari Violazione di protocolli e linee guida sanitarie Difesa in procedimenti per malasanità Servizi Legali con Esperienza Consolidata Assistenza Completa nei Procedimenti Penali: Misure cautelari personali e reali Investigazioni difensive Costituzione di parte civile Giudizio abbreviato e patteggiamento Dibattimento di primo grado Appello e ricorso per Cassazione Consulenza Legale 🎯Analisi immediata del caso specifico;🎯 Strategia processuale personalizzata;🎯Tutela completa dei vostri diritti. Questo articolo ha scopo informativo e non costituisce consulenza legale. Per un parere professionale sul vostro caso specifico, vi invito a contattare il mio studio o prenotare una consulenza legale on-line:  Per richiedere un appuntamento con me: Consulenza Legale in Studio Consulenza Legale On-Line Tag: #ResponsabilitàSanitaria #AvvocatoPenalistaAncona #OmicidioColposo #ResponsabilitàInfermiere #Triage #MalasanitàAncona #DirittopenaleAncona #TribunaleAncona #CorteAppelloAncona #CassazioneAncona #AvvocatoCassazionistaAncona #StudioLegaleAncona #ResponsabilitàMedica #ErroreMedico #ProtocolliSanitari #CasellarioGiudizialeAncona #CertificatoPenaleAncona #DirittopenaleMarche #AssistenzaLegaleAncona #ConsulenzaLegaleAncona […] Read more…
24/06/2025Quando “chiudono” i Tribunali? No, d’estate i Tribunali non chiudono. Per legge i Tribunali (o meglio, le cancellerie e segreterie giudiziarie) debbono essere aperti al pubblico per “cinque ore nei giorni feriali, secondo l’orario stabilito dai capi degli uffici giudiziari” (art. 162, Legge 1196 del 1960). Anche d’estate. Tuttavia, dal 1° agosto fino al 31 agosto di ogni anno opera semplicemente la sospensione dei termini processuali. Non si tratta di una chiusura (i Tribunali sono aperti tutti i giorni, d’estate e d’inverno) ma di una “tregua” disposta dagli artt. 91 e 92 del R.D. 12/1941 e, più specificatamente, dalla legge 742/1969, così come recentemente modificate dal decreto legge 132/2014. In cosa consiste la sospensione dei termini feriali? L’art. 1 della legge 742 del 1969 dispone che “Il decorso dei termini processuali relativi alle giurisdizioni ordinarie ed a quelle amministrative e’sospeso di diritto dal 1º al 31 agosto di ciascun anno, e riprende a decorrere dalla fine del periodo di sospensione. Ove il decorso abbia inizio durante il periodo di sospensione, l’inizio stesso e’ differito alla fine di detto periodo. La stessa disposizione si applica per il termine stabilito dall’articolo 201 del codice di procedura penale. Qual è lo scopo della sospensione termini feriali? In questo modo si intende garantire un’omogenea attività agli operatori (giudici, professionisti e collaboratori degli uffici) che sospendono e riprendono contemporaneamente l’attività giudiziaria. Come funziona la sospensione dei termini feriali? I termini processuali per le cause civili, penali, amministrative che scadono tra il 1° agosto e il 31 agosto ricominciano a decorrere dal 1° settembre, calcolando come valido il periodo antecedente la sospensione. Questo significa che un termine di 30 giorni che decorre dal 25 luglio, andrà calcolato senza tenere in considerazione il mese di agosto e quindi: 6 giorni di luglio, 0 giorni di agosto, 24 giorni di settembre, totale 30 giorni. Per l’effetto, detto termine andrà a scadere il 24 settembre. Materie escluse dalla sospensione dei termini feriali. ⚠️ ATTENZIONE: La sospensione NON si applica a: nel diritto sostanziale (es. termini per adempiere un contratto, disdetta e quant’altro) e negli arbitrati. A titolo esemplificativo non esaustivo, va inviata subito, anche durante il periodo feriale, la raccomandata che contesti al venditore i vizi di un bene acquistato (entro 8 giorni), oppure le difformità o vizi di un immobile eseguito in appalto (entro 60 giorni, termine che diventa di un anno se riguarda crolli o difetti strutturali dell’edificio). La querela va presentata entro il termine di tre mesi dal giorno della notizia del fatto di reato e, al suddetto termine, non si applica la sospensione dei termini per il periodo feriale. Questa regola, tuttavia, presenta delle importanti eccezioni che hanno il carattere della tipicità in quanto sono espressamente previste dalla legge. Anche per tale motivo, è raccomandabile valutare attentamente caso per caso, coadiuvati dalla assistenza e consulenza di un avvocato In quali materie opera la sospensione dei termini feriali? I procedimenti soggetti alla sospensione dei termini feriali sono quelle: ✅ civili; ✅ amministrative; ✅ tributarie; ✅ rapporti di pubblico impiego di competenza del giudice amministrativo; ✅ materia elettorale; ✅ separazioni e divorzi tra coniugi (ma non le cause aventi oggetto assegno alimentare ovvero quelli aventi ad oggetto il mantenimento del coniuge economicamente più debole e dei minori, come da ordinanza n. 18044 del 06/06/2023 della Suprema Corte di Cassazione); ✅ opposizione a ingiunzione per sanzioni amministrative L. 689/81 (esclusivamente quelle davanti alla Autorità Giudiziaria); ✅ giudizi di merito, a cognizione ordinaria, successivi a procedura di urgenza; ✅ riassunzione del giudizio innanzi al giudice dichiarato competente; ✅ regolamento di competenza e di giurisdizione; ✅ impugnazione per nullità revocazione e opposizione di terzo su lodi arbitrali; ✅ liti innanzi il Tribunale acque pubbliche e la Corte dei conti; ✅ opposizione alla stima di indennità di esproprio; ✅ impugnativa di delibere condominiali; ✅ liti in tema di locazione e recesso del locatore per necessità eccetto fase sommarie delle cause di sfratto e convalida; ✅ notifiche e opposizioni a decreto ingiuntivo; non si sospendono, invece, le opposizioni all’esecuzione ed agli atti esecutivi. Quali fasi interessa la sospensione dei termini feriali? La sospensione dei termini dei termini feriali interessa le seguenti fasi: ✅ la proposizione del ricorso introduttivo; ✅ la costituzione in giudizio del ricorrente; ✅ la presentazione ed il deposito di documenti e memorie; ✅ la proposizione dell’appello. Quali cause non sono soggette a sospensione dei termini feriali? ❌ giudizi cautelari civili (sequestri, danni temuti per crolli, nuova opera, diritto d’autore, ecc); ❌ controversie in materia di lavoro; ❌ controversie su previdenza e relative impugnative di sanzioni ai datori di lavoro; ❌ ricorso straordinario al Capo dello Stato; ❌ cause per alimenti, diritto all’aggiornamento dell’assegno alimentare tra coniugi separati; ❌ procedimenti aventi ad oggetto il mantenimento del coniuge economicamente più debole e dei minori (ordinanza n. 18044 del 06/06/2023 della Suprema Corte di Cassazione); ❌procedimenti per l’adozione di provvedimenti in materia di amministrazione di sostegno, di interdizione e di inabilitazione; ❌ procedimenti per l’adozione di ordini di protezione contro gli abusi familiari; ❌ dichiarazione e revoca di fallimenti, impugnazioni sia da parte del fallito che da parte dei creditori; ❌ cause in materia di omologazione del concordato preventivo; ❌ impugnazione della sentenza che, rigettando la domanda di omologa, dichiara il fallimento; ❌ cause di sfratto e convalida di licenza per finita locazione, per la fase di tipo sommario; ❌ controversie relative ai rapporti agrari, soggette al rito del lavoro; ❌ opposizioni all’esecuzione e opposizione agli atti esecutivi; ❌ termine di efficacia del precetto; ❌ opposizioni a decreto di ammortamento di assegni bancari; ❌ procedimento disciplinare, non giurisdizionale, nel pubblico impiego; ❌ procedimento innanzi le Autorità garanti e indipendenti; ❌ termini per la notifica ai responsabili delle violazioni al Codice stradale; ❌ termine per l’impugnativa al Prefetto di violazioni al codice della strada. In materia penale la sospensione dei termini procedurali, compresi quelli stabiliti per la fase delle indagini preliminari, non opera nei procedimenti relativi: ❌ ad imputati in stato di custodia cautelare – qualora essi o i loro difensori rinunzino alla sospensione dei termini -, ❌ nei procedimenti per reati di criminalità organizzata, ❌ nei procedimenti per reati la cui prescrizione maturi durante la sospensione o nei successivi quarantacinque giorni. Per una migliore trattazione, si rimanda comunque ed ogni caso ai testi normativi sopra citati artt. 91 e 92 del R.D. 12/1941; legge 742/1969; e, più in generale, alla giurisprudenza formatasi sul punto. Va specificato, tuttavia, che non essendovi un obbligo del giudice a conformarsi al precedente (ad eccezione dell’unico caso previsto dal secondo comma dell’articolo 384 codice procedura civile (la Corte di Cassazione, «quando accoglie il ricorso, cassa la sentenza rinviando la causa ad altro giudice, il quale deve uniformarsi al principio di diritto e comunque a quanto statuito dalla Corte»), nel caso di specie, il giudice potrebbe comunque diversamente interpretare o reinterpretare, al caso di specie, la legge sopra richiamata. Consigli pratici per il calcolo termini feriali anno 2025: Per non incorrere in decadenze o prescrizioni: ⚠️ Verificare sempre se il vostro caso rientra o meno nella sospensione dei termini feriali; ⚠️ Non procrastinate azioni urgenti pensando alla sospensione; ⚠️ Consultare immediatamente un avvocato per valutazioni specifiche. Situazioni ad alto rischio: ⏰ Termini in scadenza tra luglio e settembre; 📄 Atti giudiziari ricevuti durante l’estate; ⚖️ Procedimenti penali con imputati in custodia cautelare; 🏠 Sfratti e locazioni in fase critica; 💼 Controversie di lavoro urgenti. Il valore di una consulenza legale in materia di sospensione termini feriali: 🎯Analisi immediata del caso specifico; 🎯Calcolo preciso dei termini applicabili; 🎯 Strategia processuale personalizzata; 🎯Tutela completa dei vostri diritti. Questo articolo ha scopo informativo e non costituisce consulenza legale. Per un parere professionale sul vostro caso specifico, vi invito a contattare il mio studio o prenotare una consulenza legale on-line: Per richiedere un appuntamento con me: Consulenza Legale in Studio Consulenza Legale On-Line Tag: #SospensioneTerminiFeriali #TerminiProcessuali #TribunaliEstate #ProceduraCivile #ProceduraPenale #AvvocatoPenalistaAncona #DirittoProcessuale #TribunaleAncona #CorteAppelloAncona #StudioLegaleAncona #AvvocatoCassazionistaAncona #ProceduraPenaleAncona #DirittopenaleAncona #DirittopenaleMarche #ConsulenzaLegaleAncona #AssistenzaLegaleAncona #TerminiLegali #FerieGiudiziarie #CalendarioGiudiziario #AvvocatoAnconaOnline #LeggeProcessuale #CodiceProcessoCivile #CodiceProcessoPenale #GiurisprudenzaAncona #ProfessioneForense […] Read more…
24/06/2025La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 40309 del 2022, ha affrontato un caso emblematico di diffamazione aggravata commessa attraverso il social network Facebook, fornendo importanti chiarimenti sui criteri probatori per l’attribuzione della responsabilità penale nei reati commessi online. Il caso: offese al Comandante della Polizia Municipale Il caso riguardava un imputato condannato per aver pubblicato sul proprio profilo Facebook frasi gravemente offensive nei confronti del Comandante della Polizia Municipale. Le espressioni utilizzate accusavano la persona offesa di occupare abusivamente il posto di comandante senza averne i titoli, di essere stato scartato al servizio di leva, con paragoni offensivi alle “latrine”. La strategia difensiva: il “furto di identità” La difesa aveva sostenuto che: Non era stata raggiunta la prova certa che il messaggio fosse stato effettivamente scritto dall’imputato Terze persone avrebbero potuto utilizzare abusivamente il profilo Facebook Mancava l’accertamento sull’indirizzo IP di provenienza dei messaggi Il principio di diritto: l’omessa denuncia come elemento indiziario La Suprema Corte ha chiarito un principio fondamentale: l’omessa denuncia del presunto “furto di identità” digitale costituisce valido elemento indiziario per attribuire la paternità dei post offensivi al titolare del profilo social. La Cassazione ha infatti stabilito che: “È logico e conforme alle massime di esperienza trarre elementi di rilievo – in ordine alla provenienza di un post da un determinato utente – dall’omessa denuncia dell’uso illecito del proprio profilo, eventualmente compiuto da parte di terzi” Precedenti giurisprudenziali consolidati La sentenza richiama una giurisprudenza ormai consolidata: Cass. Pen., Sez. 5, n. 4239/2021 Cass. Pen., Sez. 5, n. 45339/2018 Cass. Pen., Sez. 5, n. 8328/2015 Tutte confermano che l’omessa denuncia del “furto di identità” rappresenta un elemento probatorio significativo nei procedimenti per diffamazione online. Implicazioni pratiche per la difesa penale Questa pronuncia evidenzia l’importanza di: Tempestiva denuncia: In caso di effettivo uso abusivo del proprio profilo social, è fondamentale presentare immediatamente denuncia alle autorità competenti Documentazione probatoria: Raccogliere ogni elemento utile a dimostrare l’estraneità ai fatti (accessi non autorizzati, modifiche delle password, etc.) Strategia difensiva mirata: La semplice allegazione del “furto di identità” senza riscontri concreti risulta insufficiente La valutazione del contenuto offensivo La Corte ha inoltre confermato che le frasi in questione avevano “indiscutibile contenuto offensivo”, respingendo la tesi difensiva secondo cui non avrebbero avuto “concreta valenza lesiva dell’onore e della reputazione”. Conclusioni per la pratica professionale Come Avvocato Penalista con esperienza in reati informatici e diffamazione online, questa sentenza conferma l’evoluzione giurisprudenziale verso criteri probatori sempre più rigorosi nei procedimenti per reati commessi sui social network. La difesa in questi procedimenti richiede: Analisi tecnica approfondita dei log di accesso e dei dati informatici Strategia probatoria articolata che vada oltre la semplice negazione Tempestività nell’azione per la tutela dei diritti dell’assistito Questo articolo ha scopo informativo e non costituisce consulenza legale. Per un parere professionale sul vostro caso specifico, vi invito a contattare il mio studio o prenotare una consulenza legale on-line: Per richiedere un appuntamento con me: Consulenza Legale in Studio Consulenza Legale On-Line Tag: #DiffamazioneOnline #ReatiInformatici #SocialNetwork #Facebook #AvvocatoPenalistaAncona #CassazionePenale #FurtoIdentitàDigitale #DirittopenaleAncona #TribunaleAncona #CorteAppelloAncona #StudioLegaleAncona #AvvocatoCassazionistaAncona #ProceduraPenaleAncona #DirittopenaleMarche #DifesaPenaleAncona #ReatiTelematici #CybercriminalitàAncona #ConsulenzaLegaleAncona #AssistenzaPenaleAncona #AvvocatoAnconaOnline […] Read more…
23/06/2025La recente sentenza della Corte di Cassazione, Sezione V Penale, n. 22356/2025, offre importanti chiarimenti sull’applicazione dell’art. 131-bis del codice penale (Esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto) e sui suoi effetti rispetto al beneficio della non menzione nel casellario giudiziale. Il Caso La vicenda riguardava un imputato, condannato per tentato furto dalla Corte d’Appello di Ancona. La difesa aveva richiesto sia l’applicazione della causa di non punibilità ex art. 131-bis, sia il beneficio della non menzione nel casellario giudiziale. I Principi Affermati 1. Rilevabilità d’Ufficio dell’Art. 131-bis La Cassazione conferma che la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto può essere rilevata d’ufficio dal giudice, anche se la richiesta viene formulata solo nelle conclusioni del procedimento camerale. Questo principio si basa sull’assimilazione alle altre cause di proscioglimento previste dall’art. 129 c.p.p. 2. Valutazione dell’Abitualità: il richiamo alla sentenza delle Sezioni Unite n. 13681/2016 Elemento centrale della decisione è il richiamo alla sentenza delle Sezioni Unite n. 13681/2016. Secondo questo orientamento consolidato: I reati per cui si è ottenuta dichiarazione di non punibilità ex art. 131-bis concorrono comunque alla valutazione dell’abitualità del comportamento; L’accertamento dell’illecito, pur non punibile, costituisce un “reato” che si somma agli altri della stessa indole; La valutazione dell’abitualità deve considerare congiuntamente reati oggetto di giudizio e illeciti accertati incidentalmente. 3. Impatto sul Beneficio della Non Menzione nel casellario giudiziale La Corte stabilisce un principio di particolare rilevanza pratica: i provvedimenti di archiviazione o declaratoria di non punibilità ex art. 131-bis possono ostare alla concessione del beneficio della non menzione nel casellario giudiziale. Questo perché: Tali provvedimenti presuppongono l’accertamento della responsabilità penale; Rientrano nelle circostanze dell’art. 133 c.p., richiamato dall’art. 175 c.p.; La loro iscrizione nel casellario è funzionale a valutazioni prognostiche in futuri giudizi. Implicazioni Pratiche La sentenza chiarisce definitivamente che l’art. 131-bis in tema di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, pur rappresentando una causa di non punibilità, non “cancella” gli effetti del reato ai fini di successive valutazioni giudiziarie. Questo ha conseguenze significative per: Strategie difensive: Occorre valutare attentamente l’opportunità di richiedere l’applicazione dell’art. 131-bis; Recidiva e abitualità: I precedenti “131-bis” mantengono rilevanza per future imputazioni; Benefici penitenziari: L’impatto si estende oltre il casellario, influenzando diverse valutazioni discrezionali del giudice. Conclusioni La decisione della Cassazione conferma l’orientamento restrittivo nell’interpretazione dell’art. 131-bis c.p.p. in materia di Esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, ribadendo che la particolare tenuità del fatto non equivale a un’assoluzione piena. Per i professionisti del diritto, questa sentenza rappresenta un importante punto di riferimento per valutare l’effettiva convenienza dell’istituto, specialmente in presenza di precedenti penali o quando si preveda la necessità di benefici futuri. La giurisprudenza di legittimità continua così a delineare i confini applicativi di uno strumento che, pur deflattivo del carico giudiziario, mantiene significativi effetti sulla posizione giuridica del soggetto. La Mia Attività Professionale come Avvocato Penalista ad Ancona Come Avvocato Cassazionista con esperienza in diritto penale, esercito la mia professione prevalentemente davanti al Tribunale e alla Corte d’Appello di Ancona, garantendo ai miei assistiti una difesa tecnica aggiornata alle più recenti evoluzioni giurisprudenziali in materia di applicazione dell’art. 131-bis del codice penale e dei benefici processuali. Nell’ambito del Diritto Penale, da oltre vent’anni ci occupiamo di: Delitti contro la persona e la famiglia: lesioni personali, maltrattamenti in famiglia, atti persecutori (stalking), delitti contro i minori, delitti codice rosso, sequestro di persona Delitti contro il patrimonio: furto, rapina, estorsione, usura, truffa, appropriazione indebita Delitti economici e societari: reati fallimentari, societari e tributari, delitti contro l’economia pubblica, l’industria ed il commercio Delitti contro lo Stato e l’ordine pubblico: delitti contro la personalità dello Stato, delitti contro l’Amministrazione della Giustizia, delitti contro l’ordine pubblico, terrorismo Associazioni criminali: associazione a delinquere, associazione a delinquere di stampo mafioso Altri reati specifici: stupefacenti e droga, armi ed esplosivi, carte di credito, contrabbando, immigrazione, delitti contro la moralità pubblica ed il buon costume, delitti contro l’incolumità pubblica Procedimenti e riti speciali: misure cautelari personali e reali, redazione di denuncia e querela, costituzione di parte civile, investigazioni difensive, incidente probatorio, udienza preliminare, giudizio abbreviato, patteggiamento, giudizio direttissimo, giudizio immediato, procedimento per decreto penale, messa alla prova, dibattimento di primo grado, appello, ricorso per Cassazione, procedimento di revisione, procedimento di riparazione per ingiusta detenzione Esecuzione penale: esecuzione penale dei provvedimenti giudiziari, misure alternative alla detenzione, affidamento in prova al servizio sociale, detenzione domiciliare La mia esperienza ventennale nel campo del diritto penale mi consente di offrire un’assistenza qualificata in procedimenti complessi, sempre con un approccio attento alle esigenze del cliente e alle peculiarità del caso concreto, garantendo massima riservatezza e professionalità. Se avete bisogno di assistenza legale in qualsiasi ambito del diritto penale, sono a vostra disposizione per una consulenza personalizzata presso il mio studio legale ad Ancona, dove potrete ricevere un’assistenza professionale e aggiornata alle più recenti evoluzioni giurisprudenziali. Per il Casellario Giudiziale di Ancona offriamo il servizio di estrazione dei certificati penali, garantendo rapidità e professionalità: Certificato Generale del Casellario Giudiziale Contenuto: Tutte le condanne penali definitive, le misure di sicurezza e i provvedimenti di applicazione di pena su richiesta Finalità: Verificare l’esistenza di condanne penali passate in giudicato (c.d. fedina penale) Certificato dei Carichi Pendenti Contenuto: Procedimenti penali in corso (non ancora definiti con sentenza passata in giudicato) Finalità: Verificare la pendenza di procedimenti penali Certificato ex art. 335 c.p.p. (indagini preliminari) Contenuto: Attestazione dello status giuridico del richiedente (indagato o parte offesa) durante la fase delle indagini preliminari; Finalità: Verificare l’assenza di indagini preliminari in corso, a conoscere: il numero del procedimento penale (modelli 21 – 21bis, 44 e 45) il magistrato assegnatario; i reati contestati; (nel caso di richiesta da parte di persona offesa) il nominativo dell’indagato o degli indagati, se iscritti Mod. 21. Le informazioni non verranno rilasciate nel caso di procedimenti per reati di cui all’art. 407, 2° comma, lett. a) c.p.p., e per i procedimenti in cui è disposto il segreto per motivi di indagine. Questo articolo ha scopo informativo e non costituisce consulenza legale. Per un parere professionale sul vostro caso specifico, vi invito a contattare il mio studio. 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13/06/2025Cassazione Penale, Sez. 4, 22 aprile 2025, n. 15697 La Quarta Sezione Penale della Cassazione, con la sentenza n. 15697 del 22 aprile 2025, ha fornito importanti chiarimenti sulla responsabilità penale del datore di lavoro in materia di sicurezza sul lavoro, confermando principi ormai consolidati ma sempre attuali. Il Caso Un lavoratore dipendente di una ditta edile, mentre scaricava materiale da un furgone da cantiere, è rimasto vittima di un infortunio causato dalla caduta di un tubo di cemento del peso superiore ai 40 kg sulla mano sinistra. L’evento ha provocato lesioni gravi con una prognosi di 140 giorni. Il datore di lavoro A.A., legale rappresentante della società, è stato condannato per lesioni colpose ex art. 590 c.p. per aver violato gli obblighi previsti dal D.Lgs. 81/2008, specificamente per: Omessa formazione del lavoratore Mancata informazione sui rischi della movimentazione manuale dei carichi Violazione degli artt. 18, 37 e 169 del Testo Unico Sicurezza I Principi Affermati dalla Cassazione 1. Posizione di Garanzia del Legale Rappresentante La Corte ha ribadito che la posizione di garanzia sussiste anche per il legale rappresentante “prestanome”. Non rileva che il soggetto non partecipi attivamente alla gestione aziendale: è sufficiente la formale investitura della carica per configurare la responsabilità. Come chiarito dalla sentenza: “la posizione di garanzia in tema di debito di sicurezza antinfortunistica deve essere riferita anche solo alla assunzione della carica di legale rappresentante della società”. 2. Prevedibilità e Prevenibilità dell’Evento La Cassazione ha confermato che l’infortunio era prevedibile e prevenibile attraverso un’adeguata formazione del lavoratore. Non costituisce circostanza imprevedibile che materiale accatastato possa scivolare durante le operazioni di scarico. Il ragionamento della Corte è lineare: “ove il lavoratore fosse stato correttamente istruito sulle modalità di movimentazione manuale dei carichi l’infortunio non si sarebbe verificato”. 3. Nesso Causale tra Omessa Formazione e Infortunio Elemento centrale della decisione è il nesso causale tra l’omessa formazione e l’evento lesivo. La Cassazione ha precisato che il datore di lavoro risponde dell’infortunio quando l’omessa formazione può dirsi causalmente legata alla verificazione dell’evento. Gli Obblighi di Formazione nel D.Lgs. 81/2008 La sentenza richiama puntualmente le definizioni normative: Formazione: processo educativo per trasferire conoscenze e competenze per lo svolgimento sicuro dei compiti Informazione: attività dirette a fornire conoscenze per identificare e gestire i rischi Addestramento: attività per apprendere l’uso corretto di attrezzature e procedure L’art. 37 del D.Lgs. 81/2008 stabilisce che formazione, informazione e addestramento devono avvenire: Alla costituzione del rapporto di lavoro In caso di trasferimento o cambio mansioni Con l’introduzione di nuove attrezzature o tecnologie Considerazioni Pratiche Questa pronuncia conferma l’orientamento rigoroso della giurisprudenza di legittimità e offre spunti di riflessione per la pratica professionale: Non basta la delega formale: il legale rappresentante mantiene la posizione di garanzia salvo delega effettiva delle funzioni prevenzionistiche La formazione deve essere specifica: non è sufficiente una formazione generica, ma occorre istruire il lavoratore sui rischi specifici delle mansioni assegnate Il nesso causale va dimostrato: l’omessa formazione deve essere causalmente collegata all’evento lesivo secondo i criteri della causalità scientifica Conclusioni La sentenza n. 15697/2025 non introduce novità interpretative ma consolida principi fondamentali della responsabilità datoriale. Il messaggio è chiaro: la sicurezza sul lavoro non ammette scorciatoie e gli obblighi formativi costituiscono presidio essenziale per la tutela dell’incolumità dei lavoratori. Per i datori di lavoro, la pronuncia rappresenta un monito a non sottovalutare gli adempimenti formativi, che devono essere concreti, specifici e documentabili. Per i professionisti del diritto, conferma la necessità di un approccio rigoroso nella valutazione della responsabilità penale in materia di sicurezza sul lavoro. Per approfondimenti sulla sicurezza sul lavoro e la responsabilità datoriale, consulta le altre sezioni del blog o contatta lo studio per una consulenza specializzata. […] Read more…
13/06/2025Aggiornato al 13 giugno 2025 Il patrocinio a spese dello Stato rappresenta un diritto fondamentale per garantire l’accesso alla giustizia anche nel processo penale. Questa guida risponde alle domande più frequenti sui requisiti, procedure e limiti per ottenere l’assistenza legale gratuita nei procedimenti penali. FAQ – Domande Frequenti sul Patrocinio a Spese dello Stato nel Penale 1. Chi può richiedere il patrocinio a spese dello Stato nel penale? Possono presentare domanda: Cittadini italiani (inclusi liberi professionisti e titolari di partita IVA) Cittadini stranieri regolarmente presenti sul territorio nazionale Apolidi con regolare permesso di soggiorno Persone offese che si costituiscono parte civile Responsabili civili citati nel processo penale 2. A chi si presenta la domanda di ammissione nel penale? La richiesta va presentata direttamente all’Autorità Giudiziaria procedente: Nelle indagini preliminari: al Giudice per le Indagini Preliminari (GIP) Nell’udienza preliminare: al Giudice dell’Udienza Preliminare (GUP) Nel dibattimento: al Giudice del dibattimento (Tribunale monocratico o collegiale) In appello: alla Corte di Appello In Cassazione: al giudice che ha emesso la sentenza impugnata (Tribunale o Corte di Appello) L’Autorità Giudiziaria verifica l’ammissibilità e concede l’ammissione se sussistono i requisiti reddituali. 3. Per quali fasi del processo penale vale l’ammissione? L’ammissione al beneficio è valida per: Indagini preliminari Udienza preliminare Dibattimento di primo grado Appello Cassazione Procedure esecutive (esecuzione della pena) Procedure incidentali connesse al processo principale 4. Da quando decorrono gli effetti dell’ammissione nel penale? Gli effetti dell’ammissione retroagiscono al momento della presentazione della domanda, coprendo anche le attività già svolte dal difensore. 5. Chi è escluso dal beneficio nel penale? Sono esclusi i soggetti condannati con sentenza definitiva per i reati indicati nell’art. 76, comma 4-bis, del D.P.R. 115/2002: Art. 416 bis c.p. (Associazioni di tipo mafioso) Art. 291 quater D.P.R. 23/01/73 n.43 (Associazione per delinquere finalizzata al contrabbando) Art. 73 D.P.R. 309/1990 (Traffico di stupefacenti – ipotesi aggravate) Art. 74 D.P.R. 309/1990 (Associazione finalizzata al traffico di stupefacenti) Reati commessi con metodo mafioso 6. Qual è il limite di reddito per il penale? ⚠ Importante: Il limite base è di € 12.838,01 (D.M. 10 maggio 2023), ma nel processo penale il limite è aumentato di € 1.032,91 per ogni familiare convivente. Esempio: Nucleo familiare di 3 persone: € 12.838,01 + (2 × € 1.032,91) = € 14.903,83 È fondamentale verificare presso l’Autorità Giudiziaria competente eventuali aggiornamenti per il 2025. 7. Eccezioni al limite di reddito nel penale Sono ammessi al PSS a prescindere dal reddito le vittime dei seguenti reati: Maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.) Violenza sessuale (art. 609 bis c.p.) Atti persecutori – stalking (art. 612 bis c.p.) Riduzione in schiavitù (art. 600 c.p.) Prostituzione e pornografia minorile (artt. 600 bis, ter c.p.) Tratta di persone (art. 601 c.p.) Altri reati del “codice rosso” 8. Quale dichiarazione dei redditi è rilevante? È rilevante l’ultima dichiarazione per la quale, al momento del deposito dell’istanza, è maturato l’obbligo di presentazione. 9. Chi non presenta la dichiarazione dei redditi deve comunque autocertificare? Sì. Indipendentemente dall’obbligo di presentazione della dichiarazione, tutti devono autocertificare i redditi rilevanti ai fini dell’ammissione. 10. Come si autocertificano i redditi? L’autocertificazione deve avvenire secondo le forme previste dall’art. 46 del D.P.R. 445/2000, utilizzando gli appositi moduli disponibili presso le cancellerie dei tribunali. 11. Quali redditi sono rilevanti per l’ammissione nel penale? Si considerano tutti i redditi, inclusi: Redditi imponibili IRPEF: Redditi da lavoro dipendente e autonomo Redditi d’impresa Redditi fondiari Redditi esenti o a tassazione separata: Pensioni sociali e rendite INAIL Assegni per invalidi civili Pensione e indennità di accompagnamento ciechi civili Pensione e indennità di accompagnamento per altri invalidità civili Assegno di separazione, divorzio, annullamento a favore del coniuge Reddito di cittadinanza Reddito di inclusione Interessi bancari, postali Interessi Certificati di deposito Rendite da BOT/CCT/CTZ/BTP Interessi percepiti da Banche/Poste Capital Gain su operazioni di borsa Dividendi/Cedole Proventi da partecipazione a fondi d’investimento Proventi da ETF Canoni di locazione (anche con cedolare secca) Assegni di mantenimento Assegno unico universale Borse di studio universitarie Proventi da vendita di immobili acquistati/costruiti da non più di 5 anni o non adibiti ad abitazione principale Proventi da vendita di immobili situati all’estero Vincite lotterie, concorsi a premi, giochi, scommesse Non rileva: Assegno di divorzio una tantum Proventi da vendita di immobili pervenuti per successione o donazione Proventi da vendita di immobili acquistati/costruiti da più di 5 anni o adibiti ad abitazione principale 12. L’ISEE è rilevante per l’ammissione al Gratuito Patrocinio nel penale? No. L’indicatore ISEE non è considerato ai fini della valutazione del reddito. 13. Si considera il reddito dell’intero nucleo familiare nel penale? Sì. Il reddito rilevante è la somma dei redditi di tutti i componenti della famiglia conviventi, compreso il richiedente. 14. Quando si considera solo il reddito personale nel penale? Si valuta esclusivamente il reddito personale quando: Sono in causa diritti della personalità Gli interessi del richiedente sono in conflitto con quelli degli altri familiari conviventi Nel caso di procedimenti per reati familiari dove gli interessi sono contrapposti 15. Rileva il reddito del convivente di fatto nel penale? Sì. Secondo gli artt. 76 e 79 del D.P.R. 115/2002, rileva la convivenza stabile e continuativa, anche di fatto, non solo quella risultante dalla residenza anagrafica. 16. Per i cittadini extracomunitari, quali redditi si considerano nel penale? Si considerano tutti i redditi, sia quelli prodotti in Italia che quelli eventualmente conseguiti all’estero. 17. È sufficiente l’autocertificazione per i redditi esteri nel penale? No. Occorre produrre: Certificato consolare del reddito conseguito all’estero, oppure Richiesta al Consolato con attestazione di invio (PEC o raccomandata A/R) da almeno 30 giorni 18. Cosa copre il patrocinio nel processo penale? Sono coperte dall’Erario: Onorario e spese spettanti al difensore Spese di notifica Tassa di registro Diritti di cancelleria Spese per investigazioni difensive Non sono coperte: Attività stragiudiziale non propedeutica al processo Spese di trasferta Condanna alle spese processuali in caso di soccombenza 19. È possibile avere due difensori con il patrocinio nel penale? No. L’art. 91 del D.P.R. 115/2002 esclude l’ammissione con più difensori. Gli effetti cessano dal momento della nomina di un secondo difensore (Cass. n. 1736/2020). 20. Come si richiede per la costituzione di parte civile? La persona offesa che intende costituirsi parte civile deve: Presentare istanza separata per il patrocinio Dimostrare i requisiti reddituali (salvo eccezioni per vittime di reati del “codice rosso“) Indicare i danni subiti e le ragioni della costituzione 21. Cosa succede in caso di patteggiamento? Il patrocinio copre anche: Negoziazioni per il patteggiamento Udienza di applicazione della pena su richiesta 22. È valido per i procedimenti davanti al Giudice di Pace? Sì, il patrocinio è ammesso anche per i procedimenti penali davanti al Giudice di Pace per i reati di loro competenza. Obblighi del Beneficiario nel Processo Penale ⚠ Importante: Il beneficiario deve comunicare annualmente all’Autorità Giudiziaria procedente (via raccomandata A/R) eventuali variazioni di reddito che superino i limiti previsti, fino alla definizione del processo. Il cliente è informato che: Deve comunicare personalmente all’Autorità Giudiziaria le variazioni di reddito È necessario un preventivo controllo dei dati autocertificati L’ammissione è sempre soggetta a verifica da parte dell’Autorità Giudiziaria Raccomandazioni Professionali Data la complessità della normativa penale e le frequenti modifiche, è sempre consigliabile consultare un avvocato penalista per valutare la propria situazione specifica. Prima di presentare la domanda, verificare sempre: I limiti di reddito attualmente in vigore La documentazione necessaria specifica per il tipo di procedimento I termini per la presentazione dell’istanza La competenza dell’Autorità Giudiziaria procedente Riferimenti Normativi Principali D.P.R. 115/2002 (Testo Unico Spese di Giustizia) D.P.R. 445/2000 (Autocertificazione) Codice di Procedura Penale (artt. 97-98) D.M. 10 maggio 2023 (Limiti di reddito) Art. 24, comma 3 Costituzione Per assistenza nella predisposizione della domanda di patrocinio a spese dello Stato per cause penali e consulenza legale specializzata, contatta il nostro studio. Materie trattate: l’Avv. Andrea Rossolini si occupa di assistenza giudiziaria nelle seguenti materie: Diritto Civile, Diritto di Famiglia, Volontaria Giurisdizione, Diritto Penale, Diritto delle Esecuzioni. Maggiori informazioni sono reperibili nel sito web www.rossolini.net. 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12/06/2025Aggiornato al 12 giugno 2025 Il patrocinio a spese dello Stato rappresenta un diritto fondamentale per garantire l’accesso alla giustizia. Questa guida risponde alle domande più frequenti sui requisiti, procedure e limiti per ottenere l’assistenza legale gratuita. FAQ – Domande Frequenti sul Patrocinio a Spese dello Stato 1. Chi può richiedere il patrocinio a spese dello Stato? Possono presentare domanda: Cittadini italiani (inclusi liberi professionisti e titolari di partita IVA) Cittadini stranieri regolarmente presenti sul territorio nazionale Apolidi con regolare permesso di soggiorno Enti no-profit e associazioni senza scopo di lucro 2. Dove si presenta la domanda di ammissione? La richiesta va presentata al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati del luogo dove: Ha sede il magistrato davanti al quale pende il processo, oppure Ha sede il magistrato competente per il merito (se il processo non è ancora iniziato) Il Consiglio verifica l’ammissibilità e concede l’ammissione anticipata e provvisoria se sussistono i requisiti reddituali e la pretesa non appare manifestamente infondata. 3. Per quali fasi processuali vale l’ammissione? L’ammissione al beneficio è valida per: Ogni grado di giudizio Tutte le fasi processuali Procedure derivate e accessorie connesse alla causa principale 4. Da quando decorrono gli effetti dell’ammissione? Gli effetti dell’ammissione retroagiscono al momento della presentazione della domanda. 5. Chi è escluso dal beneficio? Sono esclusi i soggetti condannati con sentenza definitiva per i reati indicati nell’art. 76, comma 4-bis, del D.P.R. 115/2002 ovvero: per i reati di cui agli artt. 416 bis c.p. (Associazioni di tipo mafioso), 291 quater D.P.R. 23/01/73 n.43 (Associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri), 73 D.P.R. 09/10/1990, n.309 (Produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope), limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell’art.80, e 74 co.1 D.P.R. 09/10/1990, n.309 (Associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope), nonché per i reati commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto art.416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo. 6. Per quali cause è escluso il patrocinio? Il beneficio è escluso nelle cause per cessione di crediti, salvo quando la cessione sia chiaramente avvenuta per pagamento di crediti preesistenti (art. 121 D.P.R. 115/2002). 7. Qual è il limite di reddito per accedere al beneficio? ⚠️ Importante: Il limite di reddito è soggetto ad aggiornamenti periodici tramite decreto ministeriale. L’ultimo limite pubblicato è di € 12.838,01 (D.M. 10 maggio 2023, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 6 giugno 2023). Tuttavia, è fondamentale verificare presso il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati competente l’eventuale presenza di decreti ministeriali più recenti che abbiano aggiornato tale soglia per il 2025. 8. Quale dichiarazione dei redditi è rilevante? È rilevante l’ultima dichiarazione per la quale, al momento del deposito dell’istanza, è maturato l’obbligo di presentazione. 9. Chi non presenta la dichiarazione dei redditi deve comunque autocertificare? Sì. Indipendentemente dall’obbligo di presentazione della dichiarazione, tutti devono autocertificare i redditi rilevanti ai fini dell’ammissione. 10. Come si autocertificano i redditi? L’autocertificazione deve avvenire secondo le forme previste dall’art. 46 del D.P.R. 445/2000, utilizzando gli appositi moduli disponibili sui siti degli Ordini degli Avvocati. 11. Quali redditi sono rilevanti per l’ammissione? Si considerano tutti i redditi, inclusi: Redditi imponibili IRPEF: Redditi da lavoro dipendente e autonomo Redditi d’impresa Redditi fondiari Redditi esenti o a tassazione separata: Pensioni sociali e rendite INAIL Assegni per invalidi civili Reddito di cittadinanza Interessi bancari e postali Rendite da BOT/BTP Canoni di locazione (anche con cedolare secca) Assegni di mantenimento Borse di studio universitarie Vincite da giochi e lotterie Non rileva: l’indennità di accompagnamento. 12. L’ISEE è rilevante per l’ammissione al Gratuito Patrocinio? No. L’indicatore ISEE non è considerato ai fini della valutazione del reddito. 13. Si considera il reddito dell’intero nucleo familiare? Sì. Il reddito rilevante è la somma dei redditi di tutti i componenti della famiglia conviventi, compreso il richiedente. 14. Quando si considera solo il reddito personale? Si valuta esclusivamente il reddito personale quando: Sono in causa diritti della personalità Gli interessi del richiedente sono in conflitto con quelli degli altri familiari conviventi Nei giudizi di separazione e divorzio, sono considerati in conflitto solo gli interessi del coniuge (Cass. 26.7.2019, n. 20385). 15. Rileva il reddito del convivente di fatto? Sì. Secondo gli artt. 76 e 79 del D.P.R. 115/2002, rileva la convivenza stabile e continuativa, anche di fatto, non solo quella risultante dalla residenza anagrafica. 16. Per i cittadini extracomunitari, quali redditi si considerano? Si considerano tutti i redditi, sia quelli prodotti in Italia che quelli eventualmente conseguiti all’estero. 17. È sufficiente l’autocertificazione per i redditi esteri? No. Occorre produrre: Certificato consolare del reddito conseguito all’estero, oppure Richiesta al Consolato con attestazione di invio (PEC o raccomandata A/R) da almeno 30 giorni 18. Cosa deve allegare l’amministratore di sostegno? Deve produrre l’autorizzazione del Giudice Tutelare ad agire in giudizio e a nominare un difensore. 19. L’avvocato amministratore di sostegno può difendere il beneficiario? Sì, ma deve ottenere specifica autorizzazione del Giudice Tutelare ad agire anche in qualità di difensore. 20. Cosa serve per le separazioni personali? È necessario indicare: Ultima residenza comune dei coniugi In mancanza, residenza o domicilio del coniuge convenuto Allegare estratto per riassunto del matrimonio 21. Cosa serve per i divorzi? Occorre allegare il provvedimento di separazione (sentenza, decreto di omologa o accordo di negoziazione assistita). 22. Come si valuta la non manifesta infondatezza? L’istante deve indicare: Enunciazioni in fatto e diritto della pretesa Prove specifiche da ammettere Documentazione a supporto (lettere di messa in mora, comparsa di costituzione, ecc.) 23. È possibile per la negoziazione assistita? No. Il patrocinio a spese dello Stato non è ammesso per le procedure di negoziazione assistita. 24. È possibile per la mediazione? No. Per la mediazione non sussiste competenza del Consiglio dell’Ordine. È possibile richiedere solo l’esenzione delle spese agli organismi di conciliazione accreditati. 25. È compatibile con due difensori? No. L’art. 91 del D.P.R. 115/2002 esclude l’ammissione con più difensori. Gli effetti cessano dal momento della nomina di un secondo difensore (Cass. n. 1736/2020). 26. La curatela fallimentare deve presentare istanza? No. L’ammissione avviene d’ufficio su decreto del Giudice Delegato che attesta l’indisponibilità di denaro per le spese (art. 144 D.P.R. 115/2002). Obblighi del Beneficiario ⚠️ Importante: Il beneficiario deve comunicare annualmente all’Autorità Giudiziaria (via raccomandata A/R) eventuali variazioni di reddito che superino i limiti previsti, fino alla definizione del processo. Raccomandazioni Professionali Data la complessità della normativa e le frequenti modifiche, è sempre consigliabile consultare un avvocato per valutare la propria situazione specifica e predisporre correttamente la documentazione necessaria. Prima di presentare la domanda, verificare sempre presso il Consiglio dell’Ordine competente i limiti di reddito attualmente in vigore. Riferimenti Normativi Principali D.P.R. 115/2002 (Testo Unico Spese di Giustizia) D.P.R. 445/2000 (Autocertificazione) D.M. 23 luglio 2020 (Ultimo limite pubblicato) Art. 706 c.p.c. (Competenza separazioni) Per assistenza nella predisposizione della domanda di patrocinio a spese dello Stato e consulenza legale specializzata, contatta il nostro studio. 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27/05/2025La Suprema Corte stabilisce: diffondere immagini intime di altri è reato di revenge porn anche quando inviate anonimamente e in assenza di sequestro del materiale. La recente sentenza 14927/25 amplia la tutela delle vittime. I fatti e il procedimento Il caso riguarda un soggetto condannato per aver diffuso immagini a contenuto sessualmente esplicito di una persona con cui aveva avuto una relazione. La Corte d’Appello di Milano aveva confermato la condanna di primo grado, e l’imputato aveva proposto ricorso per Cassazione articolando tre motivi di impugnazione. I motivi del ricorso e le decisioni della Corte Primo motivo: riconoscibilità della persona ritratta Il ricorrente sosteneva che dalle immagini inviate non si potesse desumere che la persona ritratta fosse la persona offesa. La Corte ha dichiarato inammissibile questo motivo, ritenendo che: La riconoscibilità era stata ragionevolmente desunta dalla lunga conversazione tra l’imputato e il destinatario I riferimenti alla fine della relazione con la vittima denotavano la consapevolezza dell’identità della donna ritratta Principio importante: La Corte ha inoltre precisato che il delitto di “revenge porn” è integrato anche quando la persona offesa non sia riconoscibile dalle immagini diffuse. La norma tutela infatti la sfera di intimità e la privacy, intesa come diritto a controllare l’esposizione del proprio corpo e della propria sessualità, in un’ottica di autodeterminazione della sfera sessuale individuale. Secondo motivo: acquisizione delle prove Il ricorrente contestava le modalità di acquisizione degli screenshot delle conversazioni. La Corte ha respinto il motivo, chiarendo che: Lo screenshot era stato fornito dalla stessa persona offesa Non si configurava una violazione della segretezza della corrispondenza ex art. 15 Cost. Le dichiarazioni convergenti della vittima e di altri testimoni erano comunque sufficienti per l’affermazione della responsabilità Terzo motivo: remissione tacita della querela Il ricorrente sosteneva che la mancata comparizione della persona offesa in udienza equivalesse a remissione tacita della querela. La Corte ha respinto anche questo motivo, stabilendo un importante principio: Principio di diritto: La remissione tacita della querela che si realizza quando il querelante non compare all’udienza in cui è citato come testimone (art. 152, comma 3, n. 1, cod. pen.) non può essere equiparata alla mancata partecipazione della persona offesa al dibattimento quando le parti hanno dato consenso all’acquisizione delle sue dichiarazioni rese durante le indagini preliminari. Conclusioni La sentenza, depositata il 25 marzo 2025, rappresenta un importante precedente in materia di “revenge porn“, chiarendo che: Il reato sussiste anche quando la persona ritratta non è riconoscibile La tutela della privacy e dell’autodeterminazione sessuale è assoluta La remissione tacita della querela ha limiti precisi e non può essere estesa oltre i casi previsti dalla legge Questa decisione rafforza la protezione delle vittime di diffusione non consensuale di immagini intime, confermando l’orientamento della giurisprudenza verso una tutela sempre più efficace della dignità personale nell’era digitale. La mia attività professionale come avvocato penalista ad Ancona Come Avvocato Cassazionista con esperienza in diritto penale, esercito la mia professione davanti al Tribunale e alla Corte d’Appello di Ancona, garantendo ai miei assistiti una difesa tecnica aggiornata alle più recenti evoluzioni giurisprudenziali in materia di reati informatici e contro la persona, come dimostra questa importante sentenza della Cassazione sul revenge porn. La mia esperienza nel campo del diritto penale, con particolare attenzione ai reati di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti (revenge porn), violenza di genere e reati informatici, mi consente di offrire un’assistenza qualificata in procedimenti complessi come quelli relativi alla tutela della privacy e della dignità personale. La difesa in questi ambiti richiede competenze specifiche e una profonda conoscenza dei principi giuridici elaborati dalla giurisprudenza di legittimità. Oltre ai procedimenti in materia di revenge porn, mi occupo di difesa in processi per maltrattamenti, stalking, minacce, violenza sessuale e altri reati contro la persona, sempre con un approccio attento alle esigenze del cliente e alle peculiarità del caso concreto, garantendo massima riservatezza e sensibilità. Se avete bisogno di assistenza legale in materia di reati informatici, revenge porn o altri reati contro la persona, sono a vostra disposizione per una consulenza personalizzata presso il mio studio legale ad Ancona, dove potrete ricevere un’assistenza professionale e aggiornata alle più recenti evoluzioni giurisprudenziali. Questo articolo ha scopo informativo e non costituisce consulenza legale. Per un parere professionale sul vostro caso specifico, vi invito a contattare il mio studio. […] Read more…
20/05/2025Le domande più comuni (FAQ) sulle aste giudiziarie Che cos’è l’espropriazione immobiliare? L’espropriazione immobiliare rappresenta una procedura legale che consente a un creditore munito di un titolo esecutivo (decreto ingiuntivo, sentenza, ecc.) di ottenere ciò che gli è dovuto attraverso la vendita coattiva dei beni del debitore. Questo articolo esplora i vari aspetti di questa procedura, dalla normativa di riferimento alle modalità di partecipazione alle aste giudiziarie. Aspetti legali dell’espropriazione immobiliare Normativa di riferimento L’espropriazione immobiliare è regolata dall’art. 2910 del codice civile, con regole specifiche stabilite dal codice di rito (procedura civile). Oggetto dell’espropriazione La procedura di esproprio può coinvolgere: Il diritto di proprietà (piena proprietà) I diritti di usufrutto e di superficie su beni immobili Le pertinenze I frutti pendenti, naturali e civili I mobili che arredano i beni immobili Chi può richiedere l’espropriazione L’espropriazione immobiliare può essere richiesta da un creditore per recuperare il proprio credito. Il pignoramento immobiliare Il pignoramento immobiliare è l’atto con il quale inizia l’espropriazione immobiliare. Quando si verifica Il pignoramento di un immobile si verifica quando il debitore non è in grado di (o non vuole) pagare i suoi debiti e il creditore ha ottenuto un titolo esecutivo (ad esempio un decreto ingiuntivo o una sentenza di una causa civile o penale) che attesta l’obbligo del debitore di pagare. Beni in comproprietà Quando un’azione esecutiva colpisce integralmente un immobile che il debitore possiede in regime di comunione con altri soggetti, la procedura impone specifici adempimenti formali. In particolare, l’atto di pignoramento deve essere formalmente notificato non solo al debitore esecutato, ma anche a tutti i comproprietari dell’immobile oggetto della procedura. Parallelamente, la nota di trascrizione del pignoramento presso i registri immobiliari deve riportare, tra i soggetti “contro” i quali essa viene eseguita, non solo il debitore principale ma anche tutti i comproprietari del bene. Questa disposizione trova frequente applicazione nel caso dei beni in comunione legale tra coniugi, dove l’immobile, pur essendo pignorato per debiti riferibili a uno solo dei coniugi, richiede il coinvolgimento formale di entrambi nella procedura esecutiva. Tale meccanismo procedurale garantisce la corretta pubblicità dell’azione esecutiva e tutela i diritti di tutti i soggetti coinvolti nella comunione del bene. La vendita all’asta Definizione di asta giudiziaria L’asta giudiziaria si configura come la fase culminante del procedimento esecutivo, finalizzata alla monetizzazione del patrimonio del debitore attraverso un meccanismo di vendita pubblica. La procedura d’asta è strutturata per garantire la massima valorizzazione economica dei beni oggetto di vendita, attraverso un sistema di offerte competitive. Il ricavato dell’alienazione forzosa viene destinato al soddisfacimento, totale o parziale, delle pretese creditorie avanzate sia dai creditori che hanno dato impulso alla procedura esecutiva, sia da quelli che sono successivamente intervenuti nel processo, secondo l’ordine di priorità stabilito dalla legge. L’asta giudiziaria costituisce, pertanto, il punto di equilibrio tra l’interesse del creditore alla realizzazione del proprio diritto e la necessità di garantire che la liquidazione del patrimonio del debitore avvenga secondo criteri di trasparenza e massimizzazione del valore. Documenti ufficiali della vendita I documenti ufficiali della vendita sono: Ordinanza: è il provvedimento con cui il Giudice dell’Esecuzione ordina la vendita del bene all’asta, stabilendone tempi e modalità e ne definisce dettagliatamente l’intero quadro operativo. In particolare, l’ordinanza determina la tempistica della procedura d’asta, stabilendo le date di esperimento dei tentativi di vendita, e ne disciplina le modalità attuative, definendo aspetti quali la base d’asta, le forme di pubblicità, i requisiti per la partecipazione e le condizioni di aggiudicazione. Avviso di vendita: è l’atto redatto e pubblicato dal professionista delegato alla vendita (nominato dal Giudice dell’Esecuzione) che contiene informazioni essenziali come la descrizione del bene, la data e l’ora dell’asta, la sede dell’asta, i requisiti per partecipare e il prezzo base di vendita. Questo documento rappresenta, pertanto, il principale veicolo informativo attraverso cui la procedura esecutiva si apre al mercato, consentendo la più ampia partecipazione dei potenziali acquirenti. Perizia di stima: è il documento redatto da un perito che valuta il valore del bene che sarà messo all’asta. Tipologie di vendita Vendita senza incanto Per partecipare alla vendita senza incanto, è necessario presentare un’offerta in busta chiusa o criptata (se telematica), che non può essere inferiore al 75% del valore base. È obbligatorio allegare una cauzione di almeno il 10% dell’importo offerto. Se ci sono più offerte valide, viene indetta una gara competitiva fra coloro che sono stati ammessi a partecipare, sulla base dell’offerta più alta pervenuta. Nella vendita senza incanto l’aggiudicazione è sempre definitiva. Vendita con incanto Durante una vendita con incanto è necessario presentare una domanda di partecipazione in busta chiusa o criptata (se telematica). Se ci sono più partecipanti, si svolgerà una gara con rilanci minimi prestabiliti. In una vendita con incanto l’aggiudicatario è sempre provvisorio. Ai sensi dell’art. 584 del Codice di Procedura Civile, dopo la gara, si apre un periodo di 10 giorni durante il quale chiunque può presentare una nuova offerta, purché sia superiore di almeno un quinto rispetto al prezzo raggiunto nell’asta. Questa fase, nota come “offerta in aumento del quinto”, permette ulteriori rilanci anche dopo la conclusione dell’asta principale. Se non vengono presentate offerte migliorative nei 10 giorni, l’aggiudicazione diventa definitiva. In caso contrario, viene indetta una nuova gara tra l’aggiudicatario provvisorio e chi ha presentato l’offerta migliorativa, anche gli offerenti al precedente incanto che, entro il termine fissato dal giudice, abbiano integrato la cauzione. Vendita diretta Con la cosiddetta ‘Riforma Cartabia’ (Decreto Legislativo n. 149 del 10 ottobre 2022) sono stati inseriti nel codice di procedura civile due nuovi articoli, il 568 bis e il 569 bis, che permettono ora al soggetto esecutato di inoltrare richiesta al Giudice dell’Esecuzione per effettuare autonomamente la vendita dell’immobile sottoposto a pignoramento, a patto che il corrispettivo non sia inferiore al valore stabilito dal perito nella sua relazione. Finanziamento e spese Possibilità di richiedere un mutuo È possibile richiedere un mutuo per comprare un immobile all’asta. È stata definita tra l’Associazione Bancaria Italiana (ABI) e i Tribunali una “Convenzione per l’erogazione dei mutui agli aggiudicatari”, in virtù della quale la stipula dell’atto di mutuo con concessione dell’ipoteca avviene contestualmente al decreto di trasferimento. Spese che gravano sul bene in vendita Consultando la perizia di stima del bene, è possibile verificare se ci sono eventuali formalità o vincoli che gravano sul bene, opere abusive, spese di gestione o manutenzione, e spese condominiali non pagate. Modalità di partecipazione alle aste Chi può partecipare Qualsiasi persona fisica o giuridica, ad eccezione del debitore e dei soggetti di cui all’articolo 1471 del codice civile, può partecipare all’asta personalmente o a mezzo di mandatario munito di procura speciale. Aste telematiche Vendita sincrona telematica Una vendita sincrona telematica è una tipologia di vendita che si svolge interamente online, in cui il referente della procedura e tutti gli offerenti sono connessi contemporaneamente da remoto. Vendita sincrona mista Una vendita sincrona mista consente la presentazione delle offerte, la partecipazione e la possibilità di effettuare rilanci sia in modalità telematica che in presenza fisica davanti al referente della vendita. Vendita asincrona telematica La vendita asincrona telematica si riferisce ad un processo di vendita che si svolge online in un periodo temporale prestabilito durante il quale è sempre possibile effettuare i rilanci. Strumenti necessari per le vendite telematiche Per partecipare alle vendite telematiche gestite secondo le modalità tecniche del D.M. n. 32/2015 sono necessari due strumenti principali: la firma digitale e la PEC. Dopo l’aggiudicazione Versamento del saldo La normativa prevede che il versamento del saldo debba avvenire nel rispetto del termine perentorio stabilito nell’ordinanza di vendita emessa dal Giudice dell’Esecuzione. In assenza di specifiche disposizioni, tale termine è fissato in 120 giorni decorrenti dalla data di aggiudicazione definitiva. Tuttavia, questo intervallo temporale può subire variazioni in due ipotesi: qualora l’ordinanza di vendita preveda espressamente un termine più breve, oppure nel caso in cui sia lo stesso offerente a indicare, in sede di presentazione dell’offerta, la propria disponibilità ad effettuare il pagamento in un arco temporale inferiore. Il mancato rispetto del termine per il versamento del saldo prezzo determina conseguenze gravose per l’aggiudicatario inadempiente: la decadenza dall’aggiudicazione, con conseguente inefficacia del trasferimento del bene, e la perdita della cauzione precedentemente versata, che viene incamerata dalla procedura a titolo di penale e altre severe conseguenze le cui reali dimensioni trascendono significativamente la comune percezione diffusa tra gli operatori del settore e i potenziali acquirenti. Questo rigoroso meccanismo sanzionatorio è posto a tutela dell’efficienza della procedura esecutiva e dell’affidamento dei creditori sulla tempestiva conclusione della fase liquidatoria. Conclusione L’espropriazione immobiliare è una procedura complessa che richiede una buona conoscenza delle normative e delle procedure. Questo articolo ha fornito una panoramica generale, ma per casi specifici è sempre consigliabile consultare un professionista del settore. Perché scegliere un avvocato con esperienza nelle aste giudiziarie? La scelta di affidarsi a un avvocato con esperienza in aste giudiziarie, come l’Avvocato Andrea Rossolini, Professionista Delegato del Tribunale di Ancona ex art. 179-ter delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile, offre vantaggi sostanziali che derivano direttamente dai principi deontologici ed etici che regolano la professione forense: 1. Obbligo di indipendenza e assenza di conflitti di interesse L’avvocato è tenuto per legge e per codice deontologico a operare nell’esclusivo interesse del proprio cliente. Questo significa che, a differenza di altri intermediari che potrebbero rappresentare contemporaneamente più acquirenti interessati allo stesso immobile, l’avvocato garantisce una rappresentanza esclusiva e leale, senza conflitti di interesse. 2. Obbligo di riservatezza e segreto professionale Le informazioni condivise con un avvocato sono protette dal segreto professionale. Questo permette al cliente di discutere apertamente la propria strategia d’acquisto, la disponibilità economica e altri dettagli sensibili, con la certezza che tali informazioni non saranno utilizzate a suo svantaggio o condivise con terzi. 3. Responsabilità professionale e assicurazione obbligatoria Gli avvocati sono soggetti a responsabilità professionale e devono obbligatoriamente stipulare un’assicurazione che tutela i clienti in caso di errori. Questo offre una garanzia concreta che altri intermediari potrebbero non fornire con lo stesso livello di protezione. 4. Esperienza e Formazione giuridica continua La professione forense richiede un aggiornamento costante. Un avvocato con esperienza in aste giudiziarie, come l’Avvocato Rossolini, possiede una formazione giuridica approfondita che gli consente di interpretare correttamente la complessa normativa che regola le procedure esecutive. 5. Rapporto professionale con gli organi della procedura Nel contesto di una procedura giudiziaria, la figura dell’avvocato si distingue nettamente dagli altri operatori del settore immobiliare. Un avvocato ha un rapporto professionale e qualificato con tutti gli attori coinvolti nella procedura (custode, delegato alle vendite, esperto stimatore, giudice delle esecuzioni). Questo facilita la comunicazione e la risoluzione di eventuali problematiche e criticità emergente durante l’iter procedurale. Perché scegliere un avvocato con esperienza nelle aste giudiziarie? “Perché dovrei pagare per un servizio che potrei gestire autonomamente?” È una domanda legittima, ma che sottovaluta i rischi concreti delle procedure d’asta. Gli immobili vengono venduti “nello stato di fatto e di diritto in cui si trovano”, senza garanzie per eventuali vizi. Questo significa che: La valutazione preliminare richiede competenze specifiche Un avvocato con esperienza sa interpretare correttamente l’avviso di vendita e la perizia, individuando potenziali criticità che potrebbero sfuggire a un occhio non esperto. Gli errori formali possono essere fatali La principale causa di esclusione dalle aste è rappresentata da errori nella presentazione della domanda. Un avvocato garantisce la correttezza formale di tutti i documenti. Le decisioni emotive possono compromettere l’investimento Durante un’asta, l’emotività può portare a scelte irrazionali. Un professionista legale offre una valutazione oggettiva e distaccata, basata su criteri giuridici ed economici. Le implicazioni fiscali richiedono una valutazione esperta L’acquisto all’asta ha specifiche implicazioni fiscali che, se non correttamente gestite, possono ridurre significativamente la convenienza dell’operazione. La fase post-aggiudicazione presenta numerose complessità Dopo l’aggiudicazione, è necessario gestire il saldo del prezzo, il decreto di trasferimento e l’eventuale liberazione dell’immobile. Le reali dimensioni trascendono significativamente la comune percezione diffusa tra gli operatori del settore e i potenziali acquirenti. Un avvocato garantisce che queste fasi si svolgano nel rispetto della legge e a tutela dell’acquirente. L’esperienza dell’Avvocato Andrea Rossolini L’Avvocato Andrea Rossolini, in qualità di Professionista Delegato del Tribunale di Ancona ex art. 179-ter (norma che regola l’elenco dei professionisti autorizzati dal tribunale a gestire le operazioni di vendita nelle procedure esecutive), offre una consulenza qualificata che si distingue per: Conoscenza approfondita delle procedure esecutive Capacità di valutare correttamente il rapporto rischio/opportunità Assistenza completa in tutte le fasi della procedura Tutela degli interessi del cliente secondo i più elevati standard deontologici Pur operando prevalentemente per le aste del Tribunale di Ancona, l’Avvocato Rossolini estende la propria consulenza alle procedure esecutive su tutto il territorio nazionale, garantendo sempre lo stesso livello di professionalità e competenza. Conclusioni La scelta di affidarsi a un avvocato con esperienza in aste giudiziarie non rappresenta semplicemente un costo aggiuntivo, ma un investimento nella sicurezza e nella qualità dell’acquisto. I principi deontologici ed etici che regolano la professione forense garantiscono un livello di tutela che altri intermediari non possono offrire, rendendo questa scelta preferibile sotto molteplici aspetti. L’Avvocato Andrea Rossolini, con la sua esperienza come Professionista Delegato del Tribunale di Ancona, rappresenta un punto di riferimento per chi desidera partecipare alle aste immobiliari con la certezza di essere assistito secondo i più elevati standard professionali. Consulenza e Assistenza Legale 🎯Analisi immediata del caso specifico;🎯 Strategia processuale personalizzata;🎯Tutela completa dei vostri diritti. Questo articolo ha scopo informativo e non costituisce consulenza legale. Per un parere professionale sul vostro caso specifico, vi invito a contattare il mio studio o prenotare una consulenza legale on-line:  Per richiedere un appuntamento con me: Consulenza Legale in Studio Consulenza Legale On-Line Per appuntamenti e informazioni, potete contattare il mio studio legale. Tag: #AssistenzaAsteAncona #AvvocatoAsteAncona #AsteAncona #AsteChiaravalle #AsteSenigallia #CasaAstaAncona #CasaAstaSenigallia #CasaAstaSirolo #CasaAstaNumana #CasaAsta #AsteGiudiziarieAncona #AssistenzaLegaleAncona #ConsulenzaLegaleAncona […] Read more…
19/05/2025Introduzione La recente sentenza della Corte di Cassazione n. 3780 del 12 febbraio 2024 rappresenta un importante precedente in materia di responsabilità degli istituti bancari e dei prestatori di servizi di pagamento nelle frodi informatiche. Il caso riguarda un’operazione fraudolenta effettuata sulla carta prepagata di un utente, vittima di phishing. Il caso Un utente ha ricevuto una email apparentemente proveniente dalla propria banca che lo invitava a cambiare la password del proprio conto. Seguendo il link contenuto nella mail e inserendo le proprie credenziali, l’utente ha successivamente riscontrato un addebito non autorizzato di € 2.900 a favore di “xxxx Paris Fra”. Trattasi di un caso di phishing. Dopo il rifiuto della banca di rimborsare la somma, l’utente ha avviato un’azione legale. Il Giudice di Pace ha inizialmente rigettato la domanda, ma il Tribunale di Paola, in appello, ha accolto il ricorso dell’utente condannando la banca al risarcimento. I principi stabiliti dalla Cassazione La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso della banca, confermando alcuni principi fondamentali: Responsabilità contrattuale della banca: La responsabilità della banca per operazioni effettuate tramite strumenti elettronici è di natura contrattuale. Diligenza tecnica professionale: Al prestatore di servizi è richiesta una diligenza di natura tecnica, da valutarsi con il parametro dell’”accorto banchiere”. Onere della prova: Mentre il cliente deve solo provare la fonte del proprio diritto, è la banca a dover dimostrare di aver adottato misure adeguate per garantire la sicurezza del servizio. Rischio d’impresa: La possibilità di sottrazione fraudolenta dei codici attraverso tecniche come il phishing rientra nel rischio d’impresa del prestatore di servizi. Implicazioni pratiche Questa sentenza ha importanti implicazioni per: Istituti bancari e prestatori di servizi: Devono implementare soluzioni tecniche adeguate per prevenire frodi, come sistemi di alert via SMS per confermare operazioni. Utenti: Sebbene la sentenza tuteli i consumatori, resta fondamentale adottare comportamenti prudenti nella gestione delle proprie credenziali online. Conclusioni La sentenza conferma l’orientamento della giurisprudenza italiana verso una maggiore tutela dei consumatori nei casi di frodi informatiche (c.d. phishing), ponendo sugli istituti bancari l’onere di dimostrare di aver adottato tutte le misure necessarie per garantire la sicurezza delle operazioni online. Il principio secondo cui il rischio di frodi informatiche rientra nel “rischio d’impresa” del prestatore di servizi rappresenta un importante precedente che potrebbe influenzare future decisioni in casi simili, incentivando gli istituti bancari a investire maggiormente nella sicurezza informatica e nella prevenzione delle frodi. La mia attività professionale come avvocato penalista ad Ancona Come Avvocato Cassazionista con esperienza in diritto penale e diritto civile, esercito la mia professione davanti al Tribunale e alla Corte d’Appello di Ancona, garantendo ai miei assistiti una difesa tecnica aggiornata alle più recenti evoluzioni giurisprudenziali nazionali ed europee. Se avete bisogno di assistenza legale in materia penale e civile (risarcimento danni da phishing), sono a vostra disposizione per una consulenza personalizzata presso il mio studio legale ad Ancona o on-line a questo link, dove potrete ricevere un’assistenza professionale e aggiornata alle più recenti evoluzioni giurisprudenziali. Questo articolo ha scopo informativo e non costituisce consulenza legale. Per un parere professionale sul vostro caso specifico, vi invito a contattare il mio studio. […] Read more…
12/05/2025Una Sentenza Innovativa che Ridisegna i Confini tra Processo Penale e Civile La Suprema Corte di Cassazione, con la recente sentenza n. 14578 del 14 aprile 2025, ha annullato una decisione della Corte d’Appello di Ancona, stabilendo importanti principi sia in materia di contraffazione di marchi celebri sia, soprattutto, sui criteri di valutazione della responsabilità civile quando il reato è prescritto. La decisione, che ha visto come difensore dell’imputato l’Avvocato Cassazionista Andrea Rossolini del Foro di Ancona, rappresenta un punto di svolta nella giurisprudenza italiana. La Valutazione della Corte di Cassazione sulla Decisione della Corte d’Appello di Ancona La Cassazione ha rilevato come la Corte d’Appello di Ancona non abbia fornito “una motivazione adeguata in conformità ai richiamati principi”. In particolare, la Corte territoriale, pur venendo in rilievo marchi celebri che godono di una tutela rafforzata, “ha trascurato di approfondire – in conformità ai criteri probatori rilevanti per la prova dell’illecito civile a fronte dell’intervenuta prescrizione del reato contestato – se i prodotti avessero delle caratteristiche peculiari tali, non solo nella forma, ma anche, ad esempio, nei colori, nelle rifiniture e nei materiali utilizzati, da poterli univocamente ed in concreto ricondurre a quelle proprie dei marchi che sarebbero stati da essi rappresentati”. La Suprema Corte ha evidenziato come la Corte d’Appello di Ancona si sia limitata ad affermare che l’illecito era integrato perché erano riprodotte la tipologia, la forma e le dimensioni delle borse di marchi celebri, senza un’adeguata analisi delle caratteristiche specifiche dei prodotti. L’Evoluzione Giurisprudenziale: Dal Principio “Tettamanti” alla Sentenza della Corte Costituzionale La sentenza dedica ampio spazio all’evoluzione giurisprudenziale sui criteri di valutazione della responsabilità civile quando il reato è prescritto. La Cassazione ripercorre il cammino dal principio “Tettamanti” (Sezioni Unite n. 35490/2009) fino alla fondamentale sentenza della Corte Costituzionale n. 182/2021, che ha ridefinito i parametri di valutazione. Il Superamento del Principio “Tettamanti” Le Sezioni Unite, con la sentenza “Tettamanti”, avevano stabilito che il giudice d’appello, intervenuta la prescrizione del reato, dovesse valutare il compendio probatorio ai fini delle statuizioni civili secondo i criteri penalistici, e che il proscioglimento nel merito prevalesse sulla causa estintiva anche in caso di prove insufficienti o contraddittorie. La Svolta della Corte Costituzionale: La Sentenza n. 182/2021 La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 182/2021, ha fornito un’interpretazione adeguatrice dell’art. 578 c.p.p., chiarendo che: “Una volta intervenuta in appello l’estinzione del reato per il quale l’imputato era stato condannato nel giudizio di primo grado, la possibilità di confermare o disporre il risarcimento del danno in favore della parte civile non si correla all’accertamento di un fatto di reato in forza della regola dell’al di là di ogni ragionevole dubbio, di matrice penalistica, bensì di un illecito civile in virtù della regola civilistica del ‘più probabile che non’.” Questa interpretazione costituzionalmente orientata ha lo scopo di bilanciare due esigenze fondamentali: Evitare che cause estintive del reato possano frustrare il diritto al risarcimento della persona danneggiata Rispettare la presunzione di innocenza, principio fondante del nostro sistema penale Il Nuovo Standard Probatorio: Dal “Oltre Ogni Ragionevole Dubbio” al “Più Probabile Che Non” La Cassazione sottolinea le profonde differenze tra i due standard probatori: Lo Standard Penalistico: “Oltre Ogni Ragionevole Dubbio” Richiede una valutazione complessiva degli elementi probatori La responsabilità deve essere accertata con un alto grado di credibilità razionale Le ipotesi alternative devono essere prive di qualsiasi concreto riscontro Lo Standard Civilistico: “Più Probabile Che Non” Si basa sulla probabilità relativa Richiede un’analisi specifica di tutte le risultanze probatorie del singolo processo Il nesso causale può essere affermato sulla base di una prova che lo renda semplicemente probabile Non è necessaria una certezza assoluta La Nuova Metodologia di Valutazione per il Giudice d’Appello La sentenza delinea con precisione la metodologia che il giudice d’appello deve seguire quando, come nel caso in esame, il reato è prescritto: Valutare se la condotta abbia provocato un “danno ingiusto” secondo l’art. 2043 cod. civ. In caso di ipotesi positiva e negativa, scegliere quella con maggiori probabilità In caso di ipotesi alternative, eliminare prima quelle meno probabili Selezionare l’ipotesi che abbia ricevuto il maggior grado di conferma dalle circostanze di fatto Considerare qualità, quantità, attendibilità e coerenza delle prove disponibili Inoltre, come precisato dalla recente sentenza “Calpitano” (Sezioni Unite n. 36208/2024), il giudice penale d’appello “non deve limitarsi a prendere atto della causa estintiva, ma è comunque tenuto a valutare, anche a fronte di prove insufficienti o contraddittorie, la sussistenza dei presupposti per l’assoluzione nel merito.” Il Caso Specifico: La Tutela dei Marchi Rinomati tridimensionali Nel merito della questione, la Cassazione ha stabilito un importante principio sulla tutela dei marchi rinomati: “Integra il reato di cui all’art. 473 cod. pen. anche la riproduzione della tipologia, della forma e delle dimensioni di un prodotto appartenente un marchio ‘rinomato’, ove pure tale marchio non venga riprodotto nel prodotto medesimo, a condizione che si accerti che la suddetta riproduzione abbia caratteristiche idonee a trasferire sul prodotto oggetto dell’imitazione il potere di individuazione dell’originale.” La Corte ha riconosciuto che i marchi celebri (nel caso specifico Balenciaga, Hermes, Stella McCartney, Celine e Yves Saint Laurent) godono di una tutela rafforzata che va oltre la mera riproduzione del marchio, estendendosi anche alle caratteristiche tridimensionali del prodotto, ma a determinate condizioni. ‘nella giurisprudenza di questa Corte, con riguardo a una fattispecie analoga a quella per cui è processo, è stato affermato che, ai fini della configurabilità del reato di contraffazione ed alterazione di marchi o segni distintivi (art. 473 cod. pen.), deve escludersi la rilevanza del marchio cosiddetto tridimensionale, quando lo stesso sia composto unicamente da elementi privi di carattere distintivo rispetto ai prodotti o servizi ai quali si riferisce, presentando forme usuali allo specifico settore di appartenenza del prodotto, senza inserire il marchio della casa produttrice del prodotto simile (Sez. 2, n. 13396 del 23/03/2011, Pescini, Rv. 250047 – 01). Del resto, già nella tradizionale giurisprudenza delle Sezioni Civili, la tutela dei marchi tridimensionali è stata riconosciuta nelle sole ipotesi di forme non consuete (Sez. 1 civ., n. 3333 del 21/05/1981, Rv. 413906 – 01) ovvero, più in generale, di caratteristiche tali da avere un potere di individuazione originale del prodotto (Sez. 1 civ., n. 549 del 29/03/1965, Rv. 310993 – 01).“ Le Conseguenze Pratiche della Sentenza Cassazione Penale 14578 del 14 aprile 2025 Questa decisione ha importanti implicazioni sia per i titolari di marchi rinomati sia per la prassi giudiziaria: Per i titolari di marchi rinomati: in determinate condizioni, si amplia la tutela contro forme di contraffazione “sofisticate” che riproducono solo le caratteristiche tridimensionali del prodotto Per i giudici d’appello: si stabilisce un preciso standard probatorio e metodologico per valutare la responsabilità civile quando il reato è prescritto Per gli imputati: si garantisce il rispetto della presunzione di innocenza anche quando permane l’azione civile La mia attività professionale come avvocato penalista ad Ancona Come Avvocato Cassazionista con esperienza in diritto penale, esercito la mia professione davanti al Tribunale e alla Corte d’Appello di Ancona, garantendo ai miei assistiti una difesa tecnica aggiornata alle più recenti evoluzioni giurisprudenziali nazionali ed europee, come dimostra questa importante sentenza della Cassazione che ho seguito personalmente. La mia esperienza nel campo del diritto penale, con particolare attenzione ai reati contro la proprietà intellettuale e industriale, mi consente di offrire un’assistenza qualificata in procedimenti complessi come quello oggetto della sentenza in esame. La difesa in Cassazione richiede competenze specifiche e una profonda conoscenza dei principi giuridici elaborati dalla giurisprudenza di legittimità. Oltre ai procedimenti in materia di contraffazione, mi occupo di difesa in processi per maltrattamenti, stalking e altri reati, sempre con un approccio attento alle esigenze del cliente e alle peculiarità del caso concreto. Se avete bisogno di assistenza legale in materia penale, sono a vostra disposizione per una consulenza personalizzata presso il mio studio legale ad Ancona, dove potrete ricevere un’assistenza professionale e aggiornata alle più recenti evoluzioni giurisprudenziali. Questo articolo ha scopo informativo e non costituisce consulenza legale. 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10/05/2025L’assegno unico universale rappresenta una prestazione economica che deve essere obbligatoriamente indicata nella domanda di ammissione al patrocinio a spese dello Stato. Analizziamo nel dettaglio perché questo contributo deve essere dichiarato e come influisce sul calcolo del reddito per l’accesso al beneficio. Perché va dichiarato l’Assegno Unico? La Cassazione penale ha chiarito che nella determinazione del reddito per il patrocinio a spese dello Stato rilevano non solo i redditi imponibili IRPEF, ma anche: Redditi esenti da IRPEF Redditi soggetti a ritenuta alla fonte Redditi soggetti ad imposta sostitutiva Qualsiasi risorsa economica di cui il richiedente disponga L’assegno unico, essendo una prestazione sociale erogata dall’INPS, rientra tra i redditi che devono essere considerati nel calcolo complessivo, anche se esente da IRPEF. Il precedente giurisprudenziale: la sentenza della Corte Cassazione penale n. 39067/2012 Un importante precedente giurisprudenziale è rappresentato dalla sentenza della Cassazione penale Sez. IV n. 39067 del 4 ottobre 2012, che ha affrontato specificamente la questione degli assegni familiari (predecessori dell’attuale assegno unico). In questa sentenza, la Corte ha respinto la tesi secondo cui gli assegni per il nucleo familiare potessero essere omessi dall’istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato in quanto non concorrenti a formare la base imponibile ai fini dell’IRPEF. La Cassazione ha chiarito che: “La sentenza di non luogo a procedere del gup si basa sulla circostanza che le somme non indicate nella istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato sono rappresentate da assegni per il nucleo familiare che, a norma della Legge 13 maggio 1988, n. 153, articolo 2, comma 11 non concorrono a formare la base imponibile ai fini dell’imposta sul reddito; si ritiene pertanto giustificata la scelta dell’imputato di non indicare tali somme nemmeno nell’istanza di ammissione di cui si discute. Come correttamente rilevato dal Procuratore ricorrente la tesi non puo’ essere condivisa atteso che il preciso e chiaro disposto del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 76, comma 3 impone di indicare nella istanza di ammissione anche i redditi esentati dal computo i fini dell’IRPEF, redditi che, pur non essendo tassati, concorrono tuttavia a determinare il limite di reddito previsto per l’ammissione al patrocinio“ Questa pronuncia costituisce un precedente fondamentale che si applica pienamente anche all’assegno unico universale, confermando l’obbligo di dichiararlo nell’istanza di ammissione al patrocinio. Come influisce sul calcolo del reddito rilevante ai fini della Ammissione al Gratuito Patrocinio? La giurisprudenza più recente ha ribadito alcuni principi fondamentali: Va considerata ogni componente reddituale, sia diretta che sostitutiva Le prestazioni sociali come l’assegno unico sono espressive di capacità economica Il reddito va calcolato considerando tutte le entrate effettivamente percepite nel periodo di riferimento Conseguenze dell’omessa dichiarazione Assegno Unico? La mancata indicazione dell’assegno unico nell’istanza può comportare serie conseguenze: Revoca dell’ammissione al beneficio se il reddito totale supera i limiti previsti Possibili conseguenze penali per false dichiarazioni Obbligo di restituire le spese sostenute dallo Stato È importante sottolineare che, come stabilito dalla Cassazione, l’errore sulla nozione di reddito rilevante non esclude la responsabilità del dichiarante. Quando va dichiarato l’Assegno Unico? L’assegno unico deve essere dichiarato: Nel momento della presentazione dell’istanza Considerando l’importo percepito nell’anno di riferimento Includendolo nel calcolo del reddito familiare complessivo Come calcolare correttamente il reddito? Secondo la Corte di Cassazione, nel calcolo vanno inclusi: Redditi imponibili risultanti dall’ultima dichiarazione Prestazioni sociali (incluso l’assegno unico) Redditi esenti o soggetti a tassazione separata Ogni altra entrata economicamente rilevante Consigli pratici per la compilazione dell’istanza Per una corretta compilazione dell’istanza, è consigliabile: Raccogliere tutta la documentazione relativa all’assegno unico Sommare l’importo totale percepito nell’anno di riferimento Includere l’importo nel calcolo del reddito complessivo Conservare la documentazione INPS attestante gli importi ricevuti Conclusioni L’assegno unico rappresenta una componente fondamentale del reddito ai fini del patrocinio a spese dello Stato. La sua corretta dichiarazione è essenziale per: Garantire la validità dell’istanza Evitare future contestazioni Assicurare una valutazione accurata della condizione economica Prevenire possibili conseguenze negative La trasparenza e completezza nella dichiarazione di tutte le componenti reddituali, incluso l’assegno unico, è fondamentale per accedere legittimamente al beneficio del patrocinio a spese dello Stato. Il Patrocinio a Spese dello Stato e la mia attività professionale di Avvocato Foro di Ancona Come avvocato specializzato in diritto di famiglia e di diritto penale ad Ancona, offro consulenza e assistenza legale in tutti i procedimenti di separazione e divorzio, maltrattamenti, stalking garantendo un approccio aggiornato alle più recenti evoluzioni giurisprudenziali nazionali ed europee. Il “Gratuito Patrocinio”, il “libero patrocinio” o meglio, il Patrocinio a Spese dello Stato è un istituto giuridico previsto dall’ordinamento italiano per garantire l’esercizio del diritto di difesa, come sancito dall’art. 24, comma 3 della Costituzione: «Sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione». Se avete bisogno di assistenza legale e ritenete di avere i requisiti per accedere al patrocinio a spese dello Stato, sono a vostra disposizione per valutare tutti gli aspetti della vostra situazione, incluse le questioni relative alla corretta dichiarazione della domanda. Per appuntamenti e informazioni, potete contattare il mio studio legale che opera nel Foro di Ancona. Questo articolo ha scopo informativo e non costituisce consulenza legale. Per un parere professionale sul vostro caso specifico, vi invito a contattare il mio studio. […] Read more…
26/04/2025La recente sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 23 gennaio 2025 segna un punto di svolta fondamentale nella giurisprudenza in materia di diritto di famiglia. La Corte ha stabilito che considerare il rifiuto di rapporti sessuali come motivo di addebito della separazione o del divorzio viola l’articolo 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, che tutela il diritto al rispetto della vita privata. Il caso H.W. c. Francia: i fatti Il caso riguarda una donna francese che, dopo aver chiesto il divorzio dal marito nel 2012, si è vista addebitare la colpa esclusiva della fine del matrimonio dalla Corte d’Appello di Versailles. La motivazione? Aver “rifiutato continuamente, a partire dal 2004, di intrattenere relazioni intime con il marito”, nonostante la donna avesse giustificato tale rifiuto con problemi di salute. La Corte d’Appello aveva ritenuto che tale comportamento costituisse “una violazione grave e ripetuta dei doveri e degli obblighi del matrimonio che rende intollerabile il mantenimento della vita comune”. La Corte di Cassazione francese aveva poi respinto il ricorso della donna. La decisione della Corte EDU La Corte Europea ha ritenuto che la riaffermazione del “dovere coniugale” e la pronuncia del divorzio per colpa esclusiva della ricorrente costituiscano un’interferenza ingiustificata con il suo diritto al rispetto della vita privata, la sua libertà sessuale e il suo diritto di disporre del proprio corpo. Secondo la Corte, l’esistenza stessa di un “obbligo matrimoniale” che impone rapporti sessuali è contraria: alla libertà sessuale al diritto di disporre del proprio corpo al dovere positivo degli Stati di prevenire la violenza domestica e sessuale La Corte ha sottolineato che “il consenso deve riflettere la libera volontà di avere un determinato rapporto sessuale, nel momento in cui si verifica e tenendo conto delle sue circostanze”, e che il consenso al matrimonio non implica il consenso a futuri rapporti sessuali. Rilevanza per il diritto italiano Questa sentenza ha importanti implicazioni anche per il diritto italiano. Sebbene il nostro ordinamento non preveda esplicitamente un “dovere coniugale” nei termini della giurisprudenza francese, la questione del rifiuto dei rapporti sessuali come possibile causa di addebito della separazione è stata oggetto di diverse pronunce giurisprudenziali. Nel nostro sistema, l’art. 143 del Codice Civile stabilisce che “dal matrimonio deriva l’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia e alla coabitazione”. La giurisprudenza italiana ha talvolta interpretato questi obblighi includendo anche aspetti relativi alla sfera intima dei coniugi. Alla luce della sentenza della Corte EDU, è ora chiaro che tale interpretazione deve essere rivista: il rifiuto di rapporti sessuali, in quanto espressione della libertà sessuale e del diritto di disporre del proprio corpo, non può costituire di per sé una violazione dei doveri matrimoniali tale da giustificare l’addebito della separazione. Conseguenze pratiche per le separazioni e i divorzi Per chi affronta una separazione o un divorzio, questa sentenza rappresenta un importante precedente. Non sarà più possibile fondare una richiesta di addebito sul solo rifiuto di rapporti sessuali da parte del coniuge. Nei procedimenti di separazione e divorzio sarà necessario: Valutare con attenzione le reali cause della crisi coniugale Considerare che la libertà sessuale è un diritto fondamentale che non viene meno con il matrimonio Ricordare che il consenso ai rapporti intimi deve essere libero e attuale Consulenza legale specializzata Come avvocato specializzato in diritto di famiglia ad Ancona, offro consulenza e assistenza legale in tutti i procedimenti di separazione e divorzio, garantendo un approccio aggiornato alle più recenti evoluzioni giurisprudenziali nazionali ed europee. La tutela dei diritti fondamentali, inclusa la libertà sessuale, è un aspetto centrale della mia pratica professionale. Se state affrontando una separazione o un divorzio e avete bisogno di assistenza legale, sono a vostra disposizione per una consulenza personalizzata che tenga conto di tutti gli aspetti della vostra situazione. Per appuntamenti e informazioni, potete contattare il mio studio legale ad Ancona. Questo articolo ha scopo informativo e non costituisce consulenza legale. Per un parere professionale sul vostro caso specifico, vi invito a contattare il mio studio. […] Read more…


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